I luoghi dell’Ebraismo a Roma: il Museo Ebraico e il Museo della Shoah

Nel giro di pochi metri quadrati compresi tra il Portico di Ottavia e il LungoTevere del Tempio si trovano due luoghi cardine della cultura ebraica, il Museo Ebraico di Roma, che si trova al di sotto del Tempio Maggiore, cioè della Sinagoga di Roma, e la Fondazione Museo della Shoah.

Ho visitato entrambi in un’unica occasione: grazie a un blogtour delle Travel Blogger Italiane, di cui faccio parte.

Il Ghetto di Roma (meglio, ex Ghetto) è uno dei quartieri più apprezzati dai turisti. In effetti è molto pittoresco, e il turista che si è appena meravigliato davanti alla grandiosità del Colosseo e a quella ben più recente dell’Altare della Patria, qui si tuffa in un’atmosfera più intima, con vie più strette, case medievali e rinascimentali che si alternano ai grandi palazzi, un susseguirsi di ristoranti Kosher e di tradizione romano-giudaica, di forni e pasticcerie e, sullo sfondo, il Portico di Ottavia e il monumentale Teatro di Marcello, testimoni della monumentalità di età romana.

Il Portico d’Ottavia e uno scorcio del Ghetto di Roma

Dal Ghetto al Rione Sant’Angelo. Storia di un quartiere “assurdo”

Gli Ebrei sono giunti in Italia, nel Lazio e a Roma 2000 anni fa, decennio più decennio meno. La più antica testimonianza è un’iscrizione rinvenuta a Ostia antica, dove peraltro sorge una sinagoga monumentale datata oggi dagli archeologi al III secolo d.C. La presenza a Roma di una comunità ebraica è quindi decisamente antica e anche precedente alla Diaspora. La Diaspora degli Ebrei avvenne in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme durante la Guerra Giudaica nel 135 d.C. Da quel momento essi abbandonano Israele andandosi a insediare e diffondere in ogni parte dell’Impero. Li ritroviamo dunque a Roma dove la loro comunità vive tranquillamente. A metà del Cinquecento, però, in pieno clima di Controriforma, viene istituzionalizzato il Ghetto, da parte di papa Paolo IV Carafa nel 1555. La bolla papale con cui si sanciva l’istituzione del Ghetto si intitolava Cum Nimis Absurdum: assurdo che Cristiani ed Ebrei potessero convivere. Così viene istituito il ghetto, presso il Tevere di fronte all’Isola Tiberina, chiuso da pesanti cancelli. Absurdum, non c’è che dire.

Roma: la Pescheria Vecchia al Portico d’Ottavia in Ghetto, 1848

Le prime restrizioni furono durissime, poi i papi successivi in parte addolcirono certe limitazioni, ma il Ghetto sussistette fino al 1870. Tra le restrizioni vi fu l’obbligo di avere un solo luogo di culto, poi mutuato in cinque, le cosiddette Cinque Scole, che però si trovavano tutte in un edificio. E non mancavano le vessazioni, o comunque le provocazioni di stampo religioso: l’obbligo di subire le prediche forzate, una forma di propaganda cristiana che voleva indurre alla conversione. Bah.

I cancelli del Ghetto furono abbattuti nel 1848 da papa Pio IX, ma ci vorrà l’annessione al Regno d’Italia, il 1870, perché esso davvero cessi di esistere. L’abolizione del Ghetto comportò però uno stravolgimento urbanistico che portò alla distruzione del Ghetto e di piazza delle Cinque Scole, quindi delle cinque piccole sinagoghe, luoghi di culto nel Ghetto, e alla costruzione del Tempio Maggiore, la bella Sinagoga che domina il Lungotevere del Tempio, di fronte all’Isola Tiberina.

Il Museo Ebraico di Roma

La storia del Ghetto che ho sintetizzato nelle righe sopra è raccontata decisamente meglio lungo il percorso espositivo del Museo Ebraico di Roma. Qui, al piano interrato sotto il Tempio Maggiore, la Sinagoga di Roma, si sviluppa un percorso espositivo che si distingue in due filoni importanti. Da una parte la storia degli Ebrei di Roma, dall’arrivo dei primi Ebrei nel I secolo d.C. ai rastrellamenti del 1943 chiudendo tragicamente con l’attentato palestinese del 1982 in cui morì il piccolo e innocente (aveva solo due anni) Stefano Gaj Taché.

Nelle sale vediamo dapprima le iscrizioni di età romana, testimonianza della presenza a Ostia e a Roma, poi scopriamo le dinamiche dell’istituzione del Ghetto, quindi approfondiamo il discorso sugli Ebrei di Libia, che hanno caratteristiche peculiari per quanto riguarda il vivere quotidiano (ciò che io, da archeologa, chiamo la “cultura materiale”).

La narrazione degli Ebrei di Roma vede in un’unica sala l’ascesa e la caduta, termini impropri per parlare dell’Emancipazione, avvenuta a seguito della fine del Ghetto, il che significò anche la possibilità per gli Ebrei di godere di pari diritti degli Italiani, e delle Leggi Razziali, che nel 1938 decretarono la creazione di un nuovo ghetto, in attesa dei rastrellamenti del 1943.

Immaginatevi a ricevere una lettera del genere. Come reagireste? Beh, gli Ebrei di Roma rastrellati il 16 ottobre 1943 la ricevettero: conteneva le istruzioni per affrontare il viaggio verso il campo di concentramento.

Tra la fine dell’Ottocento e le Leggi Razziali invece gli Ebrei, da italiani a tutti gli effetti quali erano (perché, lo ricordiamo, essere ebrei indica soltanto un credo religioso, non una “razza”, pur considerando che parlare di razze per gli uomini è assurdo e privo di senso), combattendo sul fronte durante la I Guerra Mondiale, sostenendo persino Mussolini, si ritrovarono ad essere nemici e vittime del Regime. Molti Ebrei di Roma che avevano creduto nel Fascismo si trovarono ad essere traditi negli ideali. Perché l’antisemitismo non era mai stato esplicitato dal Duce prima del 1938, prima cioè che Mussolini si legasse indissolubilmente a Hitler [Spoiler: nei paragrafi successivi, dedicati al Museo della Shoah, vedremo gli esiti dell’antisemitismo nazista in Polonia].

L’altro filone è quello della cultura e tradizione ebraica illustrata attraverso gli oggetti, spesso frutto di donazioni, che raccontano l’importanza dei rituali e degli eventi che scandiscono la vita degli individui, uomini e donne, all’interno della comunità ebraica. Nelle vetrine vediamo avvicendarsi gli abiti e gli oggetti propri del matrimonio ebraico, Ketubbà, la Milà, cioè la circoncisione dei bimbi maschi, il Bar Mizva che è il passaggio dei ragazzini tredicenni all’età adulta. E poi c’è lo shabbat, la festa del sabato, il giorno di riposo settimanale.

La tavola dello shabbat

All’interno del museo trova posto anche una piccola sinagoga di rito spagnolo, che reimpiega arredi risalenti alle Cinque Scole dando a essi nuova vita, un nuovo afflato religioso e divulgativo al tempo stesso.

Fondamentali nel percorso espositivo, sono i meil, cioè i tessuti che avvolgono la Torah, il libro sacro. Il meil è un tessuto piuttosto pesante, di colore acceso, ed è espressione di ogni singola famiglia che voglia distinguersi nella comunità ebraica. Il meil avvolge la Torah che è una pergamena avvolta tra due fusi, come un antico volumen. Certo non è un libro rilegato come i nostri.

Ogni famiglia ha il suo stemma col quale decora il meil familiare. Ad esempio quello della famiglia Mieli ha un bel favo di api rappresentato nel mezzo. Ma intorno alla torah e alla sua ritualità vi sono altri oggetti, come gli yad, ovvero gli indici: di fatto sono degli stiletti in metallo, ottone o argento, terminanti con un indice di mano, e servivano (servono) per scorrere il testo sacro sulla torah senza toccare e dunque insozzare il testo sacro con le proprie mani.

Il meil della famiglia Mieli, decorato con uno stemma con le api e il miele

La cultura ebraica è così vicina così lontana. Così vicina perché oggettivamente senza l’Ebraismo non esisterebbe il Cristianesimo e chissà che piega avrebbe preso la storia occidentale degli ultimi 2000 anni. Ma oggettivamente quanto possiamo dire di conoscere della cultura ebraica? Ecco che questo museo ci viene incontro: si rivolge a un pubblico di persone che potenzialmente non sanno nulla di ebraismo alle quali dunque spiegare che cos’è questa religione che ha avuto la sfiga di essere presa di mira dal nazismo (alert: sto esagerando provocatoriamente). Una cosa mi colpisce quindi: se devo fare una stima degli altri visitatori del museo durante la mia visita, devo constatare che un buon 70% apparteneva a comunità ebraiche provenienti dall’estero (Spagna, piuttosto che Israele o chissà dove): l’ho trovato molto interessante: la comunità ebraica internazionale cerca all’estero segni della propria identità culturale. Ci sarebbe di che costruire convegni e progetti di museologia… ma devo dire che il Museo Ebraico di Roma assolve bene al suo scopo.

Il Tempio Maggiore, la grande Sinagoga di Roma

La visita al Museo si conclude con la visita guidata al Tempio Maggiore, la grande Sinagoga di Roma. Edificio in stile eclettico, viene eretto alla fine dell’Ottocento per dare agli Ebrei privati delle Cinque Scole, ovvero delle Cinque piccole sinagoghe dell’ex-Ghetto ormai smantellato, un luogo di culto degno della loro presenza in città.

il Tempio Maggiore, Sinagoga di Roma

L’edificio è piuttosto grande, concepito a pianta centrale, sovrastato da una cupola a 4 lati, cosa eccezionale, ma che le conferisce un aspetto peculiare tra le tante cupole di Roma, così da renderla immediatamente riconoscibile.

La Sinagoga rispecchia la tradizionale divisione tra uomini e donne. Gli uomini che presenziano alla liturgia stanno al piano terra, dove si trovano le panche sulle quali le visite guidate fanno fermare i turisti. Le donne invece hanno a disposizione i matronei, al piano superiore disposti lungo i tre lati.

La sinagoga è stata una palestra di art nouveau e liberty: sia nell’aspetto esterno, con la sua cupola quadrata così caratteristica e nei decori della facciata; sia all’interno con le pitture che caratterizzano le pareti sia dell’aula, in particolare alle spalle dell’Aron, il monumentale armadio, coperto da un pesante tessuto, che custodisce la torah avvolta nel meil (ormai sono termini che dopo aver visitato il Museo Ebraico abbiamo imparato), al soffitto dei matronei e nella cupola. Toni caldi, l’arancio nelle sue diverse sfumature e soggetti vegetali e astratti, perché non si può rappresentare l’uomo, né gli animali. Sui quattro lati della cupola si alternano il cedro del libano e la palma da datteri, piante simbolo della religiosità ebraica. Gli artisti sono Domenico Bruschi e Annibale Brugnoli, due pittori che si seppero distinguere nell’Italia post-unitaria. E infatti siamo tra la fine dell’Ottocento, dopo Roma Capitale e i primi del Novecento. I due artisti si fanno interpreti dello stile eclettico che anima l’intero edificio della sinagoga.

L’interno del Tempio Maggiore

Il Tempio Maggiore fu risparmiato dai bombardamenti su Roma e riaprì al culto il 4 giugno 1944, giorno della liberazione di Roma. La guerra sarebbe durata ancora a lungo nel resto d’Italia, e le deportazioni degli Ebrei da parte dei Nazisti avevano fatto ormai danni irreparabili nella comunità ebraica di Roma. Dalle deportazioni e dai campi di concentramento tornarono solo 16 sopravvissuti. Altri testimoni si salvarono in modo spesso rocambolesco e oggi tramandano la Memoria di quei giorni, perché nessuno dimentichi, nessuno metta mai in discussione ciò che è avvenuto. E questa è la mission della Fondazione Museo della Shoah.

Fondazione Museo della Shoah

Di fronte all’ingresso del Museo Ebraico e della Sinagoga, costruiti a fine Ottocento durante i lavori di nuova urbanizzazione dell’antico Ghetto dismesso, sorge una casa medievale, unica sopravvissuta di tutti gli sventramenti perpetrati in epoca fascista con lo scopo di “liberare” gli antichi monumenti della romanità secondo l’ideologia del Ventennio secondo la quale il regime fascista era erede degli antichi fasti dell’Impero romano.

Questa casa in pietra, che copre la visuale sul Teatro di Marcello da una parte e il Portico di Ottavia dall’altro, ospita la Fondazione Museo della Shoah. Un istituto nato con lo scopo di far conoscere ciò che la shoah è stata, non solo per gli Ebrei di Roma, ma per gli Ebrei di tutta l’Europa, accomunati dal comune destino dell’antisemitismo, della persecuzione e del genocidio.

La Fondazione si impegna quotidianamente nel trasmettere i valori della Memoria e della trasmissione del racconto storico ascoltato dalla viva voce dei sopravvissuti. E oggi, a 80 anni da quei fatti, sono sempre meno i testimoni in grado di raccontare, per sopraggiunti, evidenti limiti di età. Così la Fondazione Museo della Shoah ha creato il bellissimo progetto “Radici Future” che consiste nel formare giovani – studenti poco più che liceali e universitari – sul tema della Shoah mettendoli in contatto e in ascolto dei protagonisti di quelle tragiche vicende in grado ancora oggi di raccontarlo. Tra i sopravvissuti, ad esempio, c’è Emanuele di Porto, che il 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento al Ghetto, riuscì a salvarsi rifugiandosi su un tram, protetto dai tramvieri che lo nascosero e lo nutrirono per alcuni giorni. La storia del sig. Emanuele, che all’epoca aveva 7 anni, diventerà a breve una graphic novel; intanto è uno degli attori fondamentali per la buona riuscita di questo progetto. In realtà gli attori principali sono soprattutto i ragazzi, che si fanno ascoltatori, studenti, interpreti e mediatori nel trasmettere a loro volta ciò che hanno appreso e ascoltato: sono testimoni di testimoni, perché ascoltano dalla viva voce di chi fu testimone di quei drammatici eventi.

La mostra in corso per l’anno 2023 al Museo della Shoah

Noi Travel Blogger Italiane abbiamo potuto sperimentare la bravura, la competenza, la passione di una giovane guida che fa parte del progetto “Radici Sicure”: le sue radici sono ben salde e istillano semi di conoscenza e di consapevolezza. Ringrazio tantissimo Sara per ciò che ci ha trasmesso.

L’inferno Nazista, la mostra in corso al Museo della Shoah nel 2023

Ogni anno, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, il Museo della Shoah di Roma inaugura una nuova mostra. Quest’anno la mostra si intitola “L’Inferno Nazista” ed è il racconto, crudo, senza vaselina, di ciò che furono i campi di sterminio nazisti in Polonia.

Innanzitutto una premessa: esistono i campi di concentramento e i campi di sterminio, e sono due cose ben diverse. Per fortuna i campi di sterminio sono molti meno rispetto ai campi di concentramento. Ma campi in cui sono morti migliaia di Ebrei, come Auschwitz o Birkenau non sono a tutti gli effetti campi di sterminio, ma campi di concentramento. Campi nei quali, cioè, gli Ebrei (e non solo, anche i Rom, i prigionieri politici, i gay e i disabili) prima erano ridotti in schiavitù a fare i lavori più usuranti e inutili, poi erano sottoposti a esperimenti medici di dubbio valore scientifico e infine, ma solo infine erano mandati a morire nelle camere a gas o sotto le docce, come ad Aushwitz, con l’impiego del gas Zyklon B. Mi direte: che differenza fa? Sempre condannati a morte erano!

Tutti i campi di concentramento (pallini piccoli colorati) e i campi di sterminio (triangoli neri) del Regime nazista

In realtà una differenza, anzi più d’una, c’è.

I campi di concentramento, come detto, sono campi di lavoro aperti a (o meglio, che rinchiudono) ebrei, zingari, omosessuali, disabili e oppositori politici. Campi di lavoro estremamente sadici, dove le esecuzioni erano all’ordine del giorno, ma dove i prigionieri – salvo coloro che venivano scartati fin dall’inizio – sopravvivevano da qualche giorno a qualche mese, prima dell’esecuzione. Un logoramento fisico e mentale inimmaginabile. I campi di sterminio sono stati tutt’altro. Sono state catene di montaggio della morte: arriva un treno carico di Ebrei, gli Ebrei vengono fatti spogliare, quindi convogliati nel capannone in cui si trovano le camere a gas, immesso il gas di scarico di un carro armato, e dopo 15 minuti sono tutti morti. Allora vengono estratti i denti d’oro e i corpi sono gettati nelle fosse comuni. Neanche il tempo di rendersi conto della tragedia ed essere morti.

Immagini e documenti dal Ghetto di Varsavia – Museo della Shoah Roma 2023

Dopo un’introduzione storica sull’antisemitismo eletto a sistema e a fulcro dell’ideologia nazista che in Polonia porta alla creazione dei ghetti, come quello di Varsavia, in cui gli Ebrei, privati di ogni diritto, sono lasciati praticamente a morire di fame, con immagini davvero strazianti, sia fotografiche che video, il percorso espositivo entra nel vivo portandoci nell’orrore dei campi di sterminio. Tre campi nello specifico: Sobibor, Treblinka e Belzec. Sono i campi dell’Aktion Reinhardt, che prende il nome dal capo della polizia tedesca ucciso dalla Resistenza ceca e che avrà esiti devastanti. D’altra parte non sono sicura che se avesse avuto un altro nome non avrebbe avuto gli stessi esiti.

I tre campi sono vere macchine di morte. Come nelle nostre industrie dolciarie sforniamo ogni minuto migliaia di biscotti tutti uguali, nei campi di sterminio (non chiamateli lager!) ogni minuto migliaia di ebrei gassificati uscivano. Al punto che ci furono dei momenti di disagio perché la quantità di Ebrei da uccidere era più ingente di quella che materialmente si riusciva a eliminare. Assurdo. Atroce. Folle.

I tre campi di Belzec, Sobibor e Treblinka hanno ucciso nel giro di un anno o poco più quasi un milione e mezzo di Ebrei. Una cifra impensabile. Ma se pensiamo che nel solo campo di Treblinka furono uccise 900.000 (novecentomila) persone tra il luglio e il novembre 1942, oltre a impallidire e a sentirci male per l’orrore ci facciamo due calcoli.

Sì, il tubo di scappamento che immetteva il gas nelle camere a gas era fatto così. Ecco l’oggetto che racconta l’orrore di ciò che avveniva nei campi di sterminio.

Un’installazione multimediale racconta il campo di Treblinka. Un video efficace, che ci fa vedere materialmente i luoghi, ma anche i volti, ciò che realmente si svolgeva lì dentro. Semplicemente atroce.

Nel 1943 i campi furono smantellati, perché nel frattempo si era sparsa la voce dell’esistenza di questi posti “scomodi” per lo stesso regime che li aveva promossi. Così i corpi già martirizzati dalla gassificazione furono riesumati e bruciati, perché non restasse traccia. Al posto del campo furono piantati alberi. Ma non è bastato per sfuggire alla Storia.

E i carnefici? Oh beh, è il 1943, c’è stato l’8 settembre, in Italia c’è bisogno dei loro servigi e della loro esperienza. Ritroveremo Odilo Globoknic, capo dell’Action Reinhardt e, guarda un po’, triestino di nascita, alla Risiera di San Sabba. Dove si consumeranno migliaia di omicidi, tanto da meritargli l’appellativo di “unico campo di sterminio in Italia”. In realtà, alla luce di quanto visto fin qui, nemmeno la Risiera di San Sabba si può considerare un campo di sterminio. Per quanto molte vite siano state ingiustamente sprecate, uccise, distrutte.

Infine l’ultima sala è in realtà poco più di un corridoio, un collo di bottiglia. E non è un caso che proprio a questa saletta sia lasciata la testimonianza dei processi che sempre troppo tardi, sempre troppo pochi, sempre troppo poco punitivi in rapporto con gli abominii commessi, furono condotti contro chi si macchiò di crimini nazisti. Odilo Globoknic si suicidò prima di arrivare alla sbarra, ma altri furono condannati con pene decisamente troppo basse per ciò che avevano commesso.

Con l’amaro in bocca e la consapevolezza di aver capito meglio un capitolo di storia che sempre troppo poco e sempre troppo semplicisticamente viene raccontato, si esce dal Museo della Shoah a riveder le stelle. E la passeggiata sul Lungotevere, costeggiando l’Isola Tiberina in direzione della stazione Piramide per tornare verso casa è il momento della riflessione, del metabolizzare, del capire quanto poco a livello nazionale si sappia effettivamente sulla Shoah e su quanto lavoro ancora si debba fare per sensibilizzare, per istruire, per trasmettere le testimonianze dirette che pian piano stanno diminuendo, per forza di cose, perché il tempo passa.

L’Isola Tiberina sotto le stelle, al termine del nostro blogtour nel Ghetto

Io sono archeologa, e credo nella ricostruzione storica. Credo nel valore delle fonti, scritte, epigrafiche, monumentali, artistiche, credo nella cultura materiale e credo nelle testimonianze orali, ancorché vive e quindi le più dirette. Testimonianze che però pian piano scompariranno. Io spero che queste testimonianze siano state raccolte, registrate, sbobinate, raccolte in archivi pronti all’uso e all’ascolto. Perché se perdiamo questa Memoria avremo davvero perso una parte importante della nostra Storia. Che si sarà giocata invano.

Il blogtour raccontato dalle Travel Blogger Italiane

Qui di seguito i link agli articoli delle Travel Blogger Italiane che hanno partecipato al blogtour e hanno scritto del Ghetto di Roma:

7 pensieri riguardo “I luoghi dell’Ebraismo a Roma: il Museo Ebraico e il Museo della Shoah

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  1. Eccezionale l’articolo. Purtoppo queste cose succedono quando le sorti di milioni di persone dipendono da un folle, dal fanatismo e la megalomania. Purtroppo anche attualmente ci sono dei segnali che augurano dei brutti presagi… buon fine settimana.

    1. Ti ringrazio. Sì il problema è proprio questo: cambiano forse gli attori, ma non sembra che abbiamo imparato molto dalla nostra storia più recente.
      Buon fine settimana a te!

  2. Ho partecipato anche io al blog tour ed è stata un’esperienza davvero interessante, che mi ha fatto conoscere meglio questa parte di Roma così ricca di storia e di fascino.

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