Il Molise esiste! Itinerario culturale nella regione meno nota d’Italia – Giorno 3: San Vincenzo al Volturno e Rocchetta a Volturno

Uno dei siti più importanti per la storia del monachesimo non solo italiano, ma europeo è l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno. Si tratta anche di uno degli scavi archeologici più famosi per quanto riguarda l’archeologia medievale, branca della disciplina che ha ricevuto la giusta attenzione e ha visto riconoscersi la giusta importanza solo pochi decenni fa, negli anni Settanta del Novecento (epoca d’oro per l’archeologia, dal punto di vista della metodologia, ma non è questa la sede per parlarne, pertanto soprassiederò). Lo scavo del sito di San Vincenzo al Volturno si svolge proprio tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 divenendo una pietra miliare e un punto di riferimento fondamentale per i successivi scavi archeologici su contesti medievali. Inoltre, in un’Italia accademica da sempre votata allo studio dell’età romana, possibilmente repubblicana e imperiale piena, che già poco sopportava il tardoantico (l’età corrispondente alla decadenza dell’impero romano), questo scavo gettò per la prima volta una luce “archeologica” sui cosiddetti secoli bui e in un luogo importante per il monachesimo europeo.

Dopo questo pippone di partenza, i pochi lettori che saranno rimasti su questa pagina saranno ricompensati con il racconto della visita a questo sito, alla “nuova” abbazia di San Vincenzo al Volturno, alle sorgenti del Volturno e al borgo fantasma di Rocchetta al Volturno. Quindi, cominciamo.

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno

La storia insediativa del sito di San Vincenzo al Volturno è ben più antica dell’abbazia medievale: un’area di necropoli risalente al VI-V secolo a.C. testimonia la frequentazione dell’area in un’età sannitica piuttosto antica. Anche la frequentazione di età romana è attestata, a partire dal I secolo d.C. poi completamente obliterate e cancellate dall’installazione del monastero altomedievale. Ma prima del medioevo, in età tardoantica qui si installa una prima chiesa, su cui poi sorgerà il nucleo della prima abbazia.

San Vincenzo al Volturno, la Chiesa di Epifanio, che si installa su una preesistente chiesa tardoantica

Secondo la tradizione, infatti, tre nobili di Benevento, Paldo, Taso e Tato, desiderosi di condurre vita ascetica, qui si ritirarono, sfruttando probabilmente ciò che restava degli edifici imperiali e tardoantichi. Nel IX secolo, in epoca carolingia, godendo del patrocinio degli imperatori del Sacro Romano Impero, la nascente abbazia visse il suo periodo d’oro e di massima espansione, arrivando ad ospitare una vera e propria città monastica e a possedere molte terre nell’Italia meridionale. Ciò che noi vediamo oggi, prima di arrivare alla chiesa, culmine dell’abbazia, è una serie di edifici di vita e funzionali al culto, frequentati dai monaci e aperti su un’ampia corte centrale, tutti su una riva del Volturno, in questo tratto ancora molto stretto (le sue sorgenti sono davvero a 1-2 km).

Ma già nell’881 d.C. l’Abbazia, la cui influenza e importanza era evidentemente nota anche fuori della penisola italiana, fu saccheggiata e incendiata da Saraceni che si spinsero fin qui sull’appennino. La comunità monastica sopravvissuta non potè far altro che abbandonare quel luogo, trasferendosi a Capua. Se da un lato questo ha decretato la fine dell’abbazia, dall’altra però ha consentito agli archeologi, 1100 anni dopo, di indagare un contesto rimasto fermo all’età carolingia, al IX secolo d.C.

Il percorso di visita parte dagli ambienti di vita e di servizio dell’abbazia, che si sviluppa intorno alla chiesa di Epifanio, costruita dall’abate Epifanio nella prima metà del IX secolo sui resti di una precedente chiesa tardoantica la cui cripta è affrescata (per visitarla, solo in determinati giorni e orari, ci vuole un biglietto a parte) e la cui parte antistante ospitava sei sepolture che per la loro posizione possiamo intendere come “privilegiate” appartenenti cioè a personaggi di spicco della comunità, monastica o laica locale che fosse. Quanto agli affreschi della cripta, si tratta di uno tra gli esempi più importanti di pittura altomedievale a livello europeo, con scene dedicate alla vita di Cristo a partire dalla gravidanza della Madonna, alla natività e fino alla Crocifissione; si trovano poi i martirii di Lorenzo e Stefano e alcune visioni dell’Apocalisse. Purtroppo quando abbiamo visitato il complesso la cripta era chiusa, ma se capitate in una delle occasioni di apertura non fatevela sfuggire.

San Vincenzo al Volturno, Chiesa di Epifanio, le 6 sepolture privilegiate antistanti la chiesa

Il percorso di visita si sviluppa poi in modo da percorrere un po’ tutti gli ambienti destinati alla socialità e alla convivialità dei frati: una corte a giardino che doveva essere circondata da un portico e un refettorio pavimentato in piastrelle di laterizio destinato all’accoglienza di ospiti laici; le cucine e il grande refettorio dei monaci, anch’esso pavimentato in laterizi e affrescato alle pareti con motivi geometrici che sembrano voler imitare l’uso (molto in voga in età tardoantica) di utilizzare marmi policromi.

Affreschi negli ambienti di vita dei monaci

Ma come si accedeva all’abbazia dall’esterno? Il complesso infatti è prospiciente al corso attuale – così come in antico – del Volturno. Ebbene, vi erano dei pontili in legno che superavano le due sponde del fiume (in questo suo tratto poco più che un rivolo d’acqua, va detto) di cui gli scavi degli anni ’70-’80 del Novecento hanno individuato le tracce. Da archeologa, posso solo immaginare l’emozione di trovarsi davanti a frammenti lignei e capire di cosa si trattava. Stiamo parlando di legno del IX secolo d.C., eh, roba di 1200 anni fa.

Proseguendo il percorso di visita, sbuchiamo in un ampio spazio aperto: il chiostro dell’abbazia, all’interno del quale una grande struttura quasi circolare era il “lavatorium“, cioè il luogo in cui i monaci si lavavano: era fornito di acqua corrente da una canaletta che correva lungo il perimetro interno dell’ambiente, che prendeva acqua dalla collina soprastante e che si riversava poi nel vicino Volturno. L’edificio, decisamente molto semplice, aveva un pilastro centrale che sorreggeva il tetto verosimilmente in legno.

San Vincenzo al Volturno, il Lavatorium dei Monaci (IX secolo d.C.)

E arriviamo, finalmente, al cuore dell’abbazia. La basilica Maior, la Basilica maggiore. Quella che vediamo oggi (il cui volume è mirabilmente reso dalla copertura che ne ricalca l’antica altezza e struttura) in realtà è il rifacimento di XI secolo perché, come abbiamo visto sopra, nell’881 gli Arabi distrussero l’abbazia (e la primitiva Basilica Maior dell’inizio del IX secolo) costringendo i superstiti a riparare a Capua. Ma due secoli dopo San Vincenzo visse una rinascita: l’edificio fu riedificato, davanti ad esso fu realizzato un grande atrio quadrangolare chiuso da portici cui si accedeva grazie a una scalinata monumentale. Il lato di portico in aderenza con la facciata fu utilizzato come area cimiteriale per i monaci: le tombe, in muratura intonacata sulla quale in qualche caso sono dipinte croci, presentavano dei fori sul fondo in laterizi, per consentire un rapido percolamento dei liquidi del corpo in decomposizione, in modo da poter utilizzare la sepoltura per un eventuale nuovo ospite eterno (finché dura). In ogni caso, per ragioni igieniche facilmente intuibili, le tombe erano collocate a un metro di profondità dal pavimento del portico dell’atrio.

La Basilica Maior con le coperture che ne rievocano i volumi originali: soluzione molto ben congegnata e altrettanto ben riuscita

A seguire, a ridosso della facciata si eressero tre torri, di cui la centrale aveva funzione di campanile e doveva essere alta ben 20 metri. A lato della basilica – che fu interamente decorata con affreschi, in parte conservati nell’abside – fu costruito un nuovo chiostro.

Entriamo finalmente nella basilica. Era a tre navate, suddivise da due filari di 12 colonne di reimpiego, in marmo rosa e grigio che probabilmente erano state innalzate alternate per obbedire a un senso estetico condivisibile. La pavimentazione originale era in tessere e lastre marmoree sistemate a comporre complessi motivi geometrici; in qualche tratto sono stati conservati i precedenti pavimenti, sempre in lastre marmoree, del IX secolo, sopravvissute alla distruzione del IX secolo. Nel IX secolo, tra l’altro, l’orientamento della chiesa era differente, e avveniva da nord, nel punto in cui poi, nella chiesa successiva, sorse la cappella di Santa Restituta. Questa è quasi una chiesina a sé, a tre navate e con tre absidi, con pavimenti anch’essi in elaborati motivi di lastre marmoree e affreschi alle pareti.

Tornando alla Basilica Maior, sotto l’abside centrale si trova la cripta di Giosué. Giosué sarebbe l’abate che la fece costruire all’inizio del IX secolo e nella quale, probabilmente, erano le spoglie mortali di San Vincenzo. Tutta la cripta era decorata con affreschi di cui restano tracce cospicue. Il complesso, che già nel IX secolo doveva essere magnifico, nell’XI doveva essere a dir poco spettacolare. Peccato che il tempo abbia dissolto molto. Ma è grazie alla caparbietà degli archeologi se oggi vediamo anche solo una minima porzione dello splendore di ciò che un tempo fu questo luogo magnifico di pace e di preghiera.

La “nuova” abbazia

Dall’alto della Basilica Maior si intravvede, laggiù in fondo, un campanile. E’ quello della “nuova” abbazia, che poi così nuova non è: risale infatti al XII secolo, poco tempo dopo la riedificazione della Basilica Maior che abbiamo visto poc’anzi: viene edificata sul lato opposto del fiume Volturno e, seppur ampiamente restaurata, per non dire ricostruita, negli anni ’60 del secolo scorso, conserva ancora cospicue tracce della sua prima fase tra cui il “portico dei pellegrini”: l’elegante serie di archivolti antistanti la chiesa e che – effettivamente – rendono il luogo molto suggestivo.

Le sorgenti del Volturno

A poca distanza in auto dal sito antico e nuovo di San Vincenzo, si trovano le sorgenti del fiume Volturno. Alla base di un ripido costone roccioso al quale si addossa una centrale idroelettrica, le sorgenti sono in realtà un laghetto placido e tranquillo, con salici frondosi che si innalzano sulle rive e popolato da numerose specie di uccelli palustri, anatre e germani reali, folaghe e quant’altro. Un luogo davvero di pace. Purtroppo non è stato possibile durante il nostro passaggio arrivare in riva al lago, nonostante oltre la recinzione ci sia un sentiero arredato con panchine. Ci siamo accontentati quindi di ammirare il laghetto e la vita che vi si svolge da fuori, come spettatori di un bellissimo e rilassante spettacolo della natura.

Germani reali sulla riva del laghetto delle sorgenti del Volturno

Il borgo fantasma di Rocchetta a Volturno

Abbandoniamo il fondovalle e ci inerpichiamo alla scoperta di un borgo che – scopriamo solo quando ci arriviamo – è completamente abbandonato. Lo abbiamo visto dalle fonti del Volturno, abbiamo chiesto a Google Maps cosa fosse, ma non abbiamo indagato oltre il nome: ci siamo fatti indicare la strada e siamo saliti. Rocchetta a Volturno è il classico borgo fantasma, abbandonato ma manutenuto e a suo modo valorizzato, in modo che ci si avventura non rischia di cadere in una voragine né di restare seppellito da un crollo improvviso.

Il borgo, il cui primitivo insediamento pare risalire già all’età romana, si sviluppa in età medievale: testimonianza ne è il castello che domina la rupe e il territorio circostante, sul quale gode di una vista a 360°. A un primitivo centro risalente al VII secolo e distrutto anch’esso dai Saraceni segue un successivo insediamento, di XII secolo che costituisce un raro esempio di civiltà contadina millenaria giunto fino a noi. Visitarlo è un po’ un’avventura, perché – almeno per me – si ha la sensazione di entrare in case altrui senza averne diritto. Eppure proprio quelle case – aperte – sono tanto più accoglienti perché permettono a chi ne è incuriosito, di cercare tracce di vita, segni del passato più recente. Ma partiamo dall’inizio.

La facciata del Municipio con la scritta inequivocabile “credere obbedire combattere”

La prima cosa che si incontra è un oratorio la cui porta aperta ci permette di accedere e di vedere quel poco che resta delle decorazioni in stucco e dipinte; proseguendo si incontra la facciata di quello che era il municipio, di cui si legge ancora a intonaco l’insegna palesemente di epoca fascista “Credere obbedire combattere“. Superato un arco ecco che entriamo nel borgo vero e proprio. Un leone brutto posto su una colonna di reimpiego che marca quest’arco e un altro leone brutto reimpiegato sulla facciata della chiesa parrocchiale immediatamente mi ben dispongono: se non seguite il mio account instagram @leoni__brutti fatelo, ecco.

Risalendo la via principale del borgo fantasma di Rocchetta a Volturno

Dalla chiesa si diparte un sentiero in salita. Sentiero oggi, ma un tempo via principale sulla quale affacciavano le case man mano che si saliva verso il castello. Come dicevo, nelle case si può entrare, il sentiero è tenuto pulito, non ci sono rovi né il percorso è particolarmente accidentato. Entrare in alcune case, in alcuni ambienti, è particolarmente suggestivo. Su alcune pareti sono scritte date che inevitabilmente ci fanno capire fino a quando questo paese fu abitato. Balconi in ghisa, ingressi ad arco, pareti esterne, e interne, ancora intonacate, cucine conservate. Mi ha ricordato, per certi versi, un piccolissimo agglomerato di case (difficile chiamarlo borgo) dalle mie parti, in Liguria, nell’immediato entroterra di Diano Marina, Ca’ Pinea, in località Santa Lucia.

Torniamo a Rocchetta a Volturno. Continuando a risalire, si arriva alle pendici del castello. Qui effettivamente si imbocca un sentiero, si arriva all’ingresso e si entra nell’edificio che dominava la valle dalla sua altura. Entrare al suo interno è molto figo, sembra davvero di fare una ricognizione archeologica nel senso più vero del termine: un’esplorazione, per capire gli ambienti, le loro connessioni, le loro fasi, i percorsi interni, le loro funzioni: qui c’era il camino, qui una finestra, qui, su questo tratto di muro che solo dall’esterno capiamo essere aggiunto successivamente, una piccola finestra quadrilobata, elegante ma poco funzionale anche in caso di difesa. E poi l’uscita quasi sul dirupo, e vedere il borgo dall’alto, e il panorama che si distende a perdita d’occhio. Magnifico.

Il castello di Rocchetta a Volturno

Dopo aver visto nello scorso post il borgo fantasma di Pesche, Rocchetta a Volturno ci sembra ancora più suggestivo. Indubbiamente un luogo che mantiene una forte magia, perché se anche le persone hanno lasciato questi luoghi da lungo tempo, la loro memoria rimane, e si percepisce forte e chiara e, a tratti, la sentiamo che ci fa pat-pat sulla spalla.

Anche se ci siamo concentrati su un fazzoletto di terra tuttosommato piuttosto circoscritto, la giornata è stata impegnativa.

Il quarto giorno del nostro itinerario sarà dedicato interamente alla città romana di Saepinum. Ma non la inserisco in questo itinerario, ne scriverò a parte. Per ora dunque questo itinerario, strutturato in tre giorni, attraverso il Molise, termina qui. Ma non è detto che si tratti di un addio: di un arrivederci, piuttosto…

Spero che con i consigli di questo e dei due post precedenti, dedicati l’uno a Venafro e Isernia, l’altro a Pietrabbondante, Vastogirardi e Pesche, possiate costruire anche voi il vostro itinerario cultuale nel Molise. Una regione che esiste, eccome! Ed è bene che faccia parlare di sé, e che sempre più persone la conoscano.

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