Mostre di fotografia a Roma, estate 2023: le imperdibili

L’estate romana parla il linguaggio della fotografia, italiana e d’autore.

Due mostre, una grande collettiva e una monografica, sono ospitate in altrettante location d’eccezione: Le Scuderie del Quirinale e le Terme di Caracalla. Entrambe le mostre sono firmate Electa.

Si tratta delle mostre “L’Italia è un desiderio. Fotografie paesaggi e visioni 1842-2022 – Le collezioni Alinari e Mufoco” alle Scuderie del Quirinale da 1 giugno al 3 settembre 2023, e “Letizia Battaglia Senza Fine“, alle Terme di Caracalla dal 27 maggio al 5 novembre 2023.

Mostre fotografiche a Roma estate 2023: “L’Italia è un desiderio” alle Scuderie del Quirinale

Il paesaggio italiano è il protagonista di questo lungo viaggio nella fotografia italiana fin dai primi dagherrotipi (i più antichi in mostra datati al 1842) ad arrivare a noi, alle opportunità offerte dalla fotografia digitale, alla pandemia del 2020 e alle sperimentazioni e riflessioni che inevitabilmente l’avvento di Instagram porta a fare.

La mostra prende le mosse dalle collezioni Alinari (Firenze) e Mufoco (Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo) ed è un viaggio in Italia (principalmente nel Nord Italia) condotto cronologicamente sul filo del tema del paesaggio, con alcuni cortocircuiti che vengono proposti al visitatore, di tanto in tanto, mettendo a confronto fotografie di epoca completamente diversa, nel tentativo di mostrare come, pur evolvendosi la tecnica fotografica e cambiando il paesaggio, tuttavia la sensibilità artistica del fotografo rimane immutata.

Leopoldo Alinari, Firenze 1860

Paesaggio di rovine e monumenti e di vedute di città, com’è nella prima sezione di fotografie, in cui troviamo vedute storiche di Firenze, Roma (mi sono commossa davanti al dagherrotipo che ritrae il Foro Romano nel 1842!), Pompei e Selinunte. L’album fotografico che James Graham, un viaggiatore in Italia durante l’ultima stagione del Grand Tour, dedica alla sorella Elisabeth, è la summa delle “cartoline dall’Italia” di un viaggio che parte da Torino, prosegue a Firenze, scende lo Stivale fino a Napoli, Paestum e Pompei.

La fotografia delle origini non è solo immagine e composizione fotografica. Ma si gioca tutto sul piano della tecnica intesa come strumenti, come supporti dei negativi (in principio i dagherrotipi, che hanno la caratteristica dell’unicità e della non riproducibilità, motivo per cui mi sono commossa poc’anzi; poi le lastre di vetro e infine la pellicola) e come materiali e tecniche per lo sviluppo nonché per la stampa. E in mostra vediamo diversi formati, diverse tipologie di positivi fotografici, vediamo anche uno dei Chiari di Luna per cui divenne famoso Gioacchino Altobelli negli anni ’60 dell’Ottocento, che lui otteneva sovrapponendo insieme due diversi negativi in fase di stampa per ottenere un suggestivo “effetto notte”.

Fotografie di Roma nella seconda metà dell’Ottocento. La seconda in alto è un Chiaro di Luna di Altobelli

Nell’Ottocento la fotografia di paesaggio italiana sostanzialmente ripercorre le tappe e il gusto del Grand Tour: e del resto la fotografia stessa in qualche modo nasce per sostituire le incisioni, le calcografie, le litografie, persino gli acquerelli che gli artisti vendevano quali souvenir ai viaggiatori in Italia. La fotografia è più veloce da realizzare (nonostante le prime prese di posa fossero davvero lunghissime!) ed è più facile da trasportare. Inoltre, cosa non di poco conto, man mano che si affina la tecnica e soprattutto che le strumentazioni diventano più a buon mercato, chi viaggia può diventare egli stesso fotografo. A lungo andare sarà proprio la facilità di utilizzo unita soprattutto all’economia della spesa a fare la fortuna della fotografia. Quando poi arriverà la kodak con l’invenzione della pellicola e il suo slogan “tu scatta, noi facciamo il resto“, sarà ufficialmente sdoganata la fotografia come strumento ludico, non solo professionale. E questo sarà anche uno dei motivi per cui la fotografia a lungo non sarà accettata come forma d’arte, soprattutto in virtù della sua riproducibilità. Ma sto divagando. Torniamo alla mostra.

L’Italia è un desiderio: il paesaggio italiano attraverso la fotografia otto-novecentesca

L’Italia è un desiderio” attraversa e indaga il paesaggio italiano attraverso lo sguardo e l’obiettivo di grandi fotografi dalla seconda metà dell’Ottocento a noi. Da Giacomo Caneva, romano, a Leopoldo Alinari, fiorentino, a Giorgio Sommer, fotografi di spicco della prima fase, i nomi che riconosciamo per le foto che attraversano il Novecento appartengono non soltanto a fotografi di professione: Giorgio Roster, per esempio, è uno scienziato che usa la fotografia per indagare i fenomeni naturali all’inizio del Novecento, mentre Fosco Maraini è un antropologo attivo in Italia e non solo nella seconda metà del Novecento.

Le fotografie di Fosco Maraini in mostra alle Scuderie del Quirinale

La seconda metà del Novecento è quella in cui nel cinema italiano prende piede il neorealismo e la fotografia non rimane indietro. La fotografia racconta disagi sociali, lotte di classe, manifestazioni studentesche e operaie. Se prima il paesaggio era protagonista, ora diviene sfondo delle dinamiche politiche e sociali degli uomini. Uomini che non erano entrati facilmente nella fotografia di paesaggio, soltanto nella prima metà del Novecento si erano imposti come soggetti ritratti all’interno di un paesaggio. Ora si prendono la parte preponderante, quella narrativa. In questo filone si inseriscono nomi del calibro di Gianni Berengo Gardin, Toni Nicolini e Letizia Battaglia, qui rappresentata con tre scatti (che vedremo anche nella mostra monografica a lei dedicata alle Terme di Caracalla: v. sotto): un realismo a tratti scabroso, che non si scandalizza davanti all’orrore, che non si vergogna di mostrare ciò che spesso si vorrebbe nascondere. Questa è l’Italia del boom economico con le sue luci e le sue ombre, ma anche delle violenze degli anni Settanta e Ottanta, sia che si tratti del terrorismo, sia che si tratti della mafia.

Questa fotografia di Gianni Berengo Gardin, scattata a Milano nel 1976, mi ha ricordato il lockdown, quando si cantava dalle finestre dei palazzi… naturalmente qui il contesto e il senso è completamente diverso. Ma la fotografia può suscitare certi cortocircuiti e suggestioni.

Altro tema di questi decenni è quello dell’astrazione. Comincia una fase di sperimentazione che vuole sovvertire l’idea e l’immagine di paesaggio. Questo fa ad esempio Franco Fontana nei suoi paesaggi così schiacciati e colorati, giocati su linee geometriche e spesso oblique, e su colori contrastanti, tanto da rendere irreale un paesaggio reale, tale in quanto fotografato, inquadrato da un obiettivo e impresso su una pellicola.

Grande protagonista della fotografia del secondo Novecento è Luigi Ghirri. Alzi la mano, se ha il coraggio, chi non ha mai sentito il nome di questo grande interprete della fotografia dell’Italia. Paesaggi, edifici, quartieri, dettagli architettonici: la poetica fotografica di Ghirri indaga tutto, usando toni di colore sempre smorzati, mettendo sempre al centro i luoghi. Non sono soggetti belli o paesaggisticamente rilevanti. Ghirri è, anche, fotografo di architettura, dove a parlare sono le linee e i volumi, dove poco è lasciato ai sentimenti, ma molto all’estetica.

Luigi Ghirri nel 1984 progetta una mostra, intitolata “Viaggio in Italia” (guarda un po’!) e chiama a collaborare e a fotografare 20 autori, che diventeranno negli anni a venire grandi fotografi (come Gabriele Basilico e Mimmo Jodice, per esempio). Il viaggio in Italia pensato da Ghirri, però, è all’opposto del Viaggio in Italia di Goethe e quindi del Grand Tour: al contrario è un viaggio nell’Italia dei luoghi non turistici, industriali (come quelli fotografati a Milano da Basilico), ma anche dei luoghi intimi, dell’arte, del mare e del centro città, dei margini. Lo scopo è quello di ridisegnare un’idea di paesaggio in Italia, più intimista e contemporanea, meno “viale di cipressi in Val d’Orcia” ma più riflessiva, giocata tra interni ed esterni, tra assenza e presenza (umana), tra posa e scatto spontaneo. Un esperimento di fotografia collettiva che sicuramente ha segnato il futuro della fotografia italiana di paesaggio da lì in avanti.

Luigi Ghirri, Alpe di Siusi, 1979, fotografia confluita nel progetto, poi mostra, “Viaggio in Italia”

Infine la fotografia diviene strumento per indagare il territorio con una finalità diversa da quella dei primi fotografi di fine Ottocento: all’epoca la fotografia di documentazione era quasi celebrativa, alla fine del Novecento diventa analitica. Il progetto decennale “Archivio dello Spazio” per esempio raccoglie 7500 fotografie scattate da 58 autori nella sola provincia di Milano con lo scopo di documentarne capillarmente il territorio. Un altro progetto, abbastanza bizzarro, prevede fotografie realizzate nel luogo in cui sorgono piccole edicole votive, inquadrando non già l’edicola votiva, ma ciò che l’immagine sacra, se avesse gli occhi veri, potrebbe vedere: e ciò che vedrebbe non è sempre edificante.

Arriviamo infine alla fotografia digitale e agli anni Duemila, alle grandi fotografie di Massimo Vitali che ha una predilezione per le spiagge affollate, e alla composizione di Moira Ricci che sovrappone a una giovane coperta dalla sabbia una serie di piccoli e piccole bagnanti, quasi personaggi di una moderna Lilliput che ora viene chiamata Lidiput.

Moira Ricci, A Lidiput, 2003

Infine, un doveroso accenno alla pandemia e ai social, e a ciò che entrambi i fenomeni hanno comportato sia nel modo di percepire che di fare fotografia, ma anche – nel caso dei social – di fruirne. E in un mondo in cui siamo tutti potenziali fotografi con lo smartphone in mano, riuscire a imporre una visione, un’idea, una propria poetica fotografica, è difficile, ma comunque stimolante.

Mostre fotografiche a Roma estate 2023: Letizia Battaglia Senza Fine

Le Terme di Caracalla sono un monumento impressionante dell’antica Roma. Rispetto al centro della città restano un po’ defilate, a 15 minuti circa a piedi dal Colosseo, per capirci, sulla stessa direttrice stradale del Circo Massimo in direzione est. Eppure sono, tra i monumenti di Roma, quelli più impressionanti: muri che si conservano in elevato per decine di metri, imposte di volta che si conservano anch’esse, ormai con la sola traccia di una decorazione in stucco che doveva renderle estremamente eleganti. Dei pavimenti a mosaico, in bianco e nero a soggetto marittimo, o policromi a soggetto geometrico, si conservano diverse porzioni. Ma soprattutto si conserva, e si segue, l’antico percorso termale, che dalla vasca dell’acqua fredda, il frigidarium, passava nel tepidarium e poi nel calidarium, i vani riscaldati; chi voleva fare esercizio fisico aveva a disposizione ben due palestre, mentre una grande piscina a cielo aperto, la natatio, era perfetta per chi volesse fare due bracciate senza necessariamente fare il percorso termale.

Le Terme di Caracalla

Le Terme di Caracalla prendono il nome dall’imperatore che ne commissionò la costruzione: Caracalla, appunto. Per molto tempo, fino alla costruzione delle Terme di Diocleziano, esse rimasero l’edificio termale più grande di Roma, con destinazione pubblica, cioè aperto a tutti: l’igiene per la prevenzione delle malattie era una priorità nella Roma degli Imperatori, che tutto volevano fuorché scoppiassero epidemie e pestilenze (anche se le fonti parlano di una “peste antonina” verificatasi durante l’impero di Marco Aurelio, pochi decenni prima di Caracalla). L’accesso alle terme pubbliche avveniva dietro il pagamento di una cifra davvero irrisoria, che chiunque si poteva permettere.

Con brusco salto temporale veniamo a noi. All’interno del grande complesso delle Terme di Caracalla è allestita per l’estate 2023 una mostra monografica dedicata a Letizia Battaglia e ai suoi 50 anni di attività. Ben 92 fotografie, che non sono poche da guardare, osservare, digerire, ricordare, raccontano diversi aspetti della sua vita da fotografa. Letizia Battaglia è nota al grande pubblico per le sue fotografie di mafia, tuttavia proprio una foto in particolare, il ritratto della vedova Schifani, uno degli agenti di scorta di Falcone morto con il giudice nella strage di Capaci, fu l’ultima che lei dedicò alla mafia. Era il maggio 1992. Tutti ricordiamo la vedova Schifani: in chiesa durante il funerale, in lacrime, sostenuta dal vescovo chiese a tutti noi “il coraggio di cambiare“. Uno dei discorsi pubblici più segnanti della storia d’Italia degli ultimi 30 anni, pronunciato peraltro da una donna che non ricopriva nessun ruolo particolare, se non quello di essere vittima di rimbalzo di una tra le più efferate stragi di mafia.

L’allestimento della mostra “Letizia Battaglia Senza Fine” nella natatio delle Terme di Diocleziano

Letizia Battaglia: non soltanto reporter di mafia

Letizia Battaglia quindi non è solo fotografa di mafia. Scopro, per esempio, che è stata una grande fotografa di nudi femminili. Nulla di pornografico o di civettuolo, piuttosto qualcosa di molto naturale. E in effetti, essendo donna, non mi aspetto niente di diverso da questa maestra del bianco e nero e degli sfumati. Una fotografa che, ammette lei stessa, è autodidatta, non ha tecnica, ma forse ha semplicemente culo all’inizio della sua carriera. Lavora per L’Ora di Palermo, poi inizia a fare reportage di mafia e se si sta dietro alla sequela di morti ammazzati “targati Palermo” come intitola una delle sue foto, a un certo punto ci verrebbe pure a noia, perché, come sostiene Susan Sontag, ci si assuefa molto facilmente all’orrore.

Letizia Battaglia, Omicidio targato Palermo, 1975

Giunta all’ultima fotografia, durante la mia visita, ho detto al mio compagno “Boh, non ho capito la ratio dell’allestimento: sono state affiancate fotografie che non hanno un legame logico, né cronologico né tematico l’una con l’altra“. Ora capisco che le foto dei morti per mafia (che tutti si aspettano quando si parla di Letizia Battaglia) andavano inframmezzate ora con nudi femminili, ora con scene di genere, ora con ragazzi che giocano, ora con una ragazzina che tiene in mano un pallone, ora con foto tratte da un reportage in un ospedale psichiatrico. Per dare conto della varietà delle tematiche e degli interessi della fotografa, che fece del reportage la sua professione, utilizzando il bianco e nero per fissare l’oggettiva realtà dei fatti, senza aggiustamenti, senza poesia.

Il clou della mostra – 80 foto disposte su 10 file di 4 pannelli fronte/retro – è collocato nella natatio che costituisce il punto di arrivo e il clou del percorso espositivo stesso delle Terme di Caracalla. Le immagini di Letizia Battaglia sono improntate al realismo puro, senza filtri. Sì, qualche volta – anzi spesso – ci si accorge che le persone ritratte sono in posa anche quando dovrebbero sembrare naturali. Ma tante volte la foto è spontanea, non studiata, imperfetta nell’esecuzione, nello sviluppo e anche nella stampa.

Letizia Battaglia, bambina che mangia il pane. Sì, le gambe del visitatore dietro sono volute.

E poi ci sono le foto di mafia. Gli esiti degli agguati, con i corpi dei morti stesi a terra, sono disseminati qua e là nella natatio. Riconosco, tra le più impressionanti, “Due Cristi” in cui è raffigurato un giovane senza maglietta, con il volto di Cristo tatuato sulla schiena, riverso nel suo sangue dopo che è stato freddato da diversi colpi di pistola. Anche la fotografia del triplice omicidio nella casa della prostituta che aveva iniziato a spacciare droga senza chiedere il permesso è notevole: un’istantanea in cui – complice anche la gigantografia di donna mezza nuda, più adatta all’officina di un meccanico che a una casa femminile, ancorché di appuntamenti – sembra che i morti siano piuttosto riversi per gli esiti di una serata ad alcool e droga particolarmente pesante. Invece no, la mafia sa essere più pesante ancora.

Letizia Battaglia, Giovanni Falcone al funerale del Generale Dalla Chiesa, 1982

Un’altra cosa mi colpisce delle foto di “ammazzatine” di mafia: molto di rado il morto ha un nome. A meno che non si tratti di un nome eccellente (un giudice, un poliziotto, un politico), il morto è sempre anonimo. Nelle didascalie che lei stessa fornisce sembra che questa informazione sia volutamente omessa (lei, in quanto reporter di un giornale, doveva sapere o prima dello scatto, o dopo la sua pubblicazione, il nome). Sembra piuttosto emergere un ragionamento: quest’ennesimo assassinio è un numero progressivo tra i tanti assassinii già perpetrati e ancora da eseguire. A che serve sapere il nome? Quell’uomo, quel ragazzo, potrebbe essere chiunque di noi.

Mostre fotografiche a Roma: perché visitarle

Roma già da diversi anni si sta dedicando alle mostre di fotografia, sia di grandi autori che di artisti meno noti. Oltre ai grandi nomi, quali Sebastião Salgado, che da ultimo ha esposto “Amazonia” al Maxxi e molti anni fa “Genesis” al Museo dell’Ara Pacis, o Robert Doisneau, sempre all’Ara Pacis nel 2022, o ancora Vivian Maier al Museo di Roma in Trastevere nel 2017.

Proprio il Museo di Roma in Trastevere è solitamente il luogo deputato ad ospitare mostre fotografiche, sia monografiche di singole fotografe e fotografi, sia collettive dedicate a temi disparati: ad esempio “Anni interessanti. Momenti di vita italiana 1960-1975” nel 2022. Inoltre ogni anno ospita il World Press Photo, l’ambito premio fotografico che premia le fotografie di reportage più significative scattate dai fotoreporter di tutto il mondo durante l’anno appena concluso.

Se è vero che la fotografia è la decima musa, e finalmente si è guadagnata il suo posto accanto alle altre forme d’arte, allora è importante conoscerla, conoscerne la storia e i suoi rappresentanti più illustri, conoscerne i temi, conoscerne la funzione: celebrazione, documentazione, reportage, poesia, paesaggio, natura. Tutto è potenziale soggetto fotografico, senza che necessariamente la foto sia artistica. Ma siccome è una forma del linguaggio contemporaneo, secondo me, che non sono fotografa, ma che amo guardare fotografie, è importante visitare mostre fotografiche, perché gettano luce sul mondo attraverso lo sguardo di altri occhi, interpreti del reale. E chissà che non troviamo lo stile, o l’autore, più simili al nostro comune sentire.

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