India dalla A alla Z

Sono appena rientrata da un viaggio in India realizzato insieme alle Travel Blogger Italiane. Come al solito, nel caso di lunghi viaggi intecontinentali, pubblicherò il diario, ma intanto mi preme esprimere le mie prime sensazioni e impressioni. Scriverò molti articoli sull’India, potete starne certi. Questo è solo il primo di una lunga serie ed è nato da un giochetto, fatto per ingannare il tempo lungo il volo di ritorno da Delhi a Milano (in 8 ore avoja quante pippe mentali ci si possono fare). Mi sono messa a pensare a una descrizione dell’India seguendo le lettere dell’alfabeto, dalla A alla Z. Ciò che è emerso per gioco, in realtà è piuttosto interessante, perché mette sul piatto tutti i vari aspetti di una terra così difficile da affrontare, ma al tempo stesso così affascinante.

Ecco le Travel Blogger Italiane in India! Io sono quella gialla, accanto a me Cristina del blog Vi do il tiro, Paola di Pasta Pizza Scones e Virginia, vlogger di Travel Gudu

India dalla A alla Z: A come Agra

Agra è la città del Taj Mahal. Già solo questo basterebbe a farla ricordare nei secoli dei secoli. Agra è invece una città con una storia piuttosto importante, ben evidente nel Red Fort, se il Taj Mahal non fosse abbastanza. Il Red Fort è la residenza dei re moghul del territorio, il Taj Mahal invece è un mausoleo, probabilmente il più bel monumento dell’età moderna, un immenso volume bianco, una “lacrima di marmo” per citare il poeta indiano Tagore. Molti vi diranno che il Taj Mahal vale il viaggio in India. Forse è vero, anche se questo, come i futuri post che pubblicherò, vorranno dare un’immagine più sincera, meno edulcorata, di questa terra.

Ha bisogno di presentazioni? Non credo: ecco a voi il Taj Mahal, Agra

Agra è la città indiana probabilmente più frequentata dai turisti occidentali, perché non si può pensare di andare in India senza vedere da vicino il Taj Mahal. Il rischio è che tutto si riduca al Taj Mahal, mentre il resto della città e i suoi esercenti avrebbero bisogno di qualche risorsa in più. Ad Agra si trova un quartiere, molto vicino al Taj Mahal, che si chiama London, a rievocare la capitale UK. Il motivo di questo nome è abbastanza palese: le strade sono regolari, pulite, non una cartaccia, non il traffico di troppo della città. London è il quartiere occidentale per eccellenza, curato come un campo da golf, sicuramente più pulito della Londra originale. C’è un fatto però, dietro alla pulizia maniacale del quartiere London: il fatto è che all’angolo dietro della strada torna la monnezza, tornano i clacson, tornano forse anche le mucche.

B come Bhrama

Il dio creatore nell’Induismo è colui al quale è dedicato il minor numero di templi: a Pushkar si trova il più antico, dove ancora oggi si celebra il rito dell’Arti, il rito della luce a mezzo di una lucerna a 5 bocche da cui si originano 5 fiamme di canfora che danno il senso del sacro, del fuoco purificatore. Un bramino, sacerdote preposto al culto del dio, compie il rito, mentre la folla dei fedeli batte le mani al ritmo forsennato delle campane che suonano stentoree e incessanti. Un rito molto emozionante, che dà la prova della forza mistica del luogo. Nonostante sullo stipite della porta d’ingresso al sacello di culto che contiene la statua del dio, vi sia appeso un certificato di eccellenza per il “best temple ever“. Un po’ come se a San Pietro esibissero incorniciato un certificato di TripAdvisor che attesti che si tratta della chiesa più importante della cristianità. L’ingenuità mi fa sorridere, mentre il rito è davvero coinvolgente e anche se non ne colgo tutto il senso, batto ugualmente le mani al ritmo delle campane.

Pushkar, il Bhrama Temple durante la preghiera

C come Chapati; C come Chai

Chapati è un pane. Andiamo in cucina, prepariamo delle palline di farina e acqua, le stendiamo e le mettiamo su piastra. Dopo poco spostiamo la pasta stesa sulla fiamma viva. Così la pasta si gonfia e si colora, e il chapati è servito. Il chapati non è l’unica tipologia di pane in India: ad esempio c’è il naan che è una sorta di pane azzimo, una sorta di piadina più piccola che serve, come il chapati, per prendere il Dal o le altre salse di verdura più o meno piccanti, invece che usare il cucchiaio. Infine c’è il paratha, una sorta di piedina ripiena variamente di cipolla, di aglio, di formaggio, di patate o di cavolfiore: un piatto completo, che si accompagna con una salsa allo yogurth e con i peacol, verdure sotto sale e sotto piccante. Provare per credere: è uno dei piatti forti negli autogrill lungo la via da Agra a Delhi.

Il Chai è ciò che speravo di bere tutti i giorni. Così non è stato, anche se di masala chai ne ho bevuti in questi giorni. Il chai è un tè nero aromatizzato con cardamomo, cannella, chiodi di garofano ed altre eventuali spezie, che va solitamente allungato con il latte e addolcito con lo zucchero. In alternativa si può bere anche senza zucchero, ma l’ingrediente insostituibile è il latte che ammorbidisce l’amaro dato dalla combinazione di spezie, per risaltarne gli aromi. Il Chai in realtà deriva da una bevanda bevuta dagli Indiani già prima che gli Inglesi importassero la coltivazione del tè grazie al botanico Robert Fortune, che era a base di latte di Yack e di spezie. L’introduzione del tè ha modificato la ricetta, ma non il nome della bevanda.

Un ottimo chai bevuto al cospetto di Ganesh

Per saperne di più sul chai e sul tè indiano ti consiglio la lettura di questo post: Il mio tè in Rajasthan! sul mio teablog.

D come Dal

Dal identifica una zuppa di lenticchie nelle sue varianti più disparate, dal Dal classico, una zuppa di colore giallo fatta con lenticchie gialle, piccante ma non troppo, al Dal Machrani, che impiega lenticchie scure ed è di colore rosso. Importante sapere che nella cucina indiana sono presenti, oltre alle spezie come cumino, coriandolo, chiodi di garofano, cardamomo, cannella e abbondante peperoncino, anche patate, pomodori e mais, prodotti originari dell’America Latina che si sono ritagliati un loro posto anche piuttosto importante nella cucina del Rajasthan: il Dum Aloo per esempio è un piatto vegetariano a base di patate. Ah, altra cosa: per esperienza personale, io che sono una grande mangiatrice di carne (eh lo so, crocifiggetemi pure in sala mensa), in India ho scoperto che la cucina vegetariana è infinitamente variegata e non fa rimpiangere la carne. Anche perché spesso il pollo (unica carne animale insieme eventualmente al montone) è cucinato a pezzi ma non disossato, il che fa correre il rischio di spaccarsi un dente con una facilità estrema.

Una ciotola di Dal, da sorbire rigorosamente col chapati (o col naan)

E come elefante

In Rajasthan ho visto da vicino un solo elefante, nella piazza della Torre dell’Orologio di Jodhpur. Ho visto poi qualche elefante, sfruttato come mezzo di trasporto per turisti europei, all’Amber Fort di Jaipur. Non ho visto elefanti liberi in natura (mi sarebbe piaciuto, ma non vivono nel Rajasthan). Però l’elefante è un animale ricorrente, a partire dal dio Ganesh, dalla testa di elefante, dio preposto ai cambiamenti e ammantato di un’aura positiva. Ganesh è divinità che porta fortuna: la sua immagine posta sopra le porte delle case benedice in qualche modo chi entra e chi vi abita. Vi sono templi, o stupe – poco più che cappelle/saccelli di culto dedicati a Ganesh in ogni dove nelle città e nelle campagne, agli angoli delle strade o strutturati in grandi dimensioni, come il Moti Dungri Ganesh Ji Temple di Jaipur, dove la statua di culto del dio, di un bell’arancione brillante che fa tanta simpatia (eppure l’espressione del dio elefante è severa) è colei alla quale ci si rivolge per benedire la macchina nuova, o la moto nuova, o si prega per il nuovo lavoro, per la casa nuova, per qualsiasi cosa che abbia a che vedere con il cambiamento di stato.

Un elefante indiano con tutto il baldacchino lo avevo nella piazza dell’Orologio di Jodhpur e l’avrei dato a te….

F come finestre di pietra

Le fortezze moghul del Rajasthan hanno sempre dei caratteri che le accomunano: le decorazioni architettoniche, per esempio, la distinzione in uno spazio pubblico e in uno spazio privato, e un aspetto molto particolare: la segregazione delle donne. Le donne infatti, sia che si tratti del Mehrangar Fort di Jodhpur, sia che si tratti dell’Amber Fort di Jaipur o del Red Fort di Agra, hanno sempre la possibilità di guardare ciò che succede nel forte attraverso finestre che sono vere e proprie tende in pizzo di pietra: potevano guardare attraverso la fitta trama di pietra senza essere viste. Privacy? No, figurarsi. Si chiama segregazione, senza fare tanti giri di parole. Queste trine di pietra sono indubbiamente molto belle a vedersi, creano giochi di luce davvero esaltanti, ma se si pensa al motivo per cui venivano realizzate… beh, passa la voglia, ecco.

G come Gandhi

Il Mahatma Gandhi è senza dubbio la figura più importante nella storia dell’India, colui che con l’applicazione della nonviolenza riuscì a far sollevare masse di popolazione contro l’occupante e vessatore inglese, al punto da riuscire a ottenere l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947. Peccato solo che un anno dopo Gandhi sia stato ucciso in un attentato diretto proprio contro la sua persona. Il fautore della liberazione dell’India, della sconfitta del colonialismo inglese, della vittoria della nonviolenza su qualunque altra forma di protesta e di oppressione, fu ucciso quando però, per fortuna, tutto era compiuto. Certo, un uomo come Gandhi, con la sua visione del mondo e del futuro dell’India, avrebbe potuto essere una guida fuori dal comune e chissà, forse oggi l’India sarebbe più pulita, più avanzata e meno popolosa. Ma con i se e con i ma la storia non si fa.

A Gandhi è dedicato un importante memoriale a Delhi, il Raj Gat, nel luogo in cui avvenne la cremazione: un parco che è un’oasi di pace dove non penetra il rumore della città; nel luogo del memoriale una fiamma risplende perenne; è un vero e proprio luogo di culto, al quale si accede a piedi scalzi, come nei templi induisti. Arrivando nei pressi del Raj Gat, su un palazzo noteremo un grande murales col volto del Mahatma: segno di quanto ancora oggi Gandhi sia un’icona importante per un Paese che cerca sempre più di sganciarsi dal Commonwealth.

Il fuoco arde sempre presso il memoriale di Gandhi a Delhi

H come Haveli

Gli haveli sono i palazzi storici, residenze signorili costruite nel corso del XIX secolo che in alcune parti del Rajasthan hanno raggiunto vette artistiche davvero notevoli. Gli haveli più belli e più noti sono quelli di Mandawa, cittadina posta lungo il percorso tra Delhi e Jodhpur, in una regione desertica francamente poco aperta all’antropizzazione. Ma ci troviamo lungo l’antica via della Seta e qui nel corso dell’Ottocento i mercanti decisero di insediarsi, di costruire le loro residenze e di affrescarle con storie mitiche del pantheon induista.

Gli haveli di Mandawa sono autentici capolavori nella cura dei dettagli, nell’architettura delle case, nei colori sgargianti di certe decorazioni. Alcuni palazzi sono stati trasformati in hotel e in questo modo si sono preservate molte testimonianze di pittura di fine Ottocento – inizi Novecento. Altri haveli invece sono lasciati al fato e alle intemperie., ma mantengono intatto il loro fascino. Le scene più ricorrenti sono legate all’immaginario induista: Krishna, Ganesh, Shiva, Rama e i miti ad essi collegati. Oppure troviamo parate militari, carovane con elefanti e cammelli. Quel che è certo è che nell’Ottocento a Mandawa i mercanti si sfidavano a colpi di haveli: una sfida continua a chi realizzava l’haveli più bello e con le pitture migliori. L’invidia non sempre dà esiti negativi.

Chockani Haveli, un Haveli di Mandawa visitabile a pagamento (100 rupie = 1 € circa), in parte completamente restaurato, che fa immergere nell’atmosfera degli haveli del XIX secolo

I come Induismo; I come Islam

Induismo e Islam: iniziano con la stessa lettera dell’alfabeto, ma sono due religioni completamente estranee l’una all’altra. Peraltro se chiedete a un induista, vi dirà che l’induismo non è una religione, ma un modo di vivere. Al tempo stesso, l’India sta vivendo un periodo di profonda opposizione alla minoranza islamica, fortemente sostenuta dal governo nazionalista induista oggi al potere. Le radici del contrasto tra induismo e islam sono storicizzate e risalgono sicuramente all’epoca dell’occupazione moghul in Rajasthan. D’altro canto l’imposizione dell’Islam all’epoca non era avvenuta in maniera pacifica: per costruire il Qutub Minar erano stati distrutti 21 templi induisti, per dire. Nel lungo periodo, però, l’induismo ha saputo sopravvivere e soverchiare l’islam. Così oggi ci troviamo nella situazione che la minoranza islamica sia vessata da leggi neanche troppo velatamente integraliste e anti-mussulmane.

Nonostante ciò, le grandi moschee sono mantenute in vita e messe in condizione di essere luoghi di culto per i mussulmani. Così avviene nella Jama Masjid di Delhi; anche la grande moschea di Fathepur è ancora oggi oggetto di pellegrinaggio. Ma per cogliere la presenza islamica in India consiglio di trovarvi all’ora di cena a Jodhpur, nella città vecchia, e sentire il canto del Muezzin che si spande da una parte all’altra della strada. Per me il canto del muezzin ha sempre un grande fascino, in un contesto del genere si veste di un più ampio e grande significato.

Jama Masjid, la grande moschea di Delhi

Il delicato equilibrio tra induismo e islam in realtà è appeso a un filo e questo a causa di una corrente ultranazionalista presente nella società politica induista del Paese. Non sto a commentare oltre, ma forse è utile la lettura di questo articolo che ben riassume decenni di contrasti tra induisti e mussulmani. Con le conseguenze, a livello politico e sociale, che si percepiscono anche oggi.

J come Jaipur; J come Jodhpur

Jaipur e Jodhpur sono due città del Rajasthan. Una è la città rosa, l’altra la città blu.

Jaipur è la capitale del Rajasthan. E’ nota come la “città rosa” perché il maraja nel 1876 fece dipingere di rosa, colore dell’amicizia, tutti gli edifici della città e le mura in occasione della visita del Principe di Galles dell’epoca. Nel percorso di visita del City Palace di Jaipur sono esposte le fotografie di quell’importante visita istituzionale in un’epoca in cui l’India era una colonia inglese. Il rosa è stato mantenuto sia sulle mura che sugli edifici del centro “storico” della città, racchiuso entro le mura. Anche l’Hawa Mahal, concepito come edificio appannaggio delle donne che, non viste (solito discorso, vedi sopra alla lettera F) potevano assistere alle processioni nel centro città, conserva quel rosa/arancio così caratteristico. La cosa interessante di Jaipur però, più ancora del colore rosa dei suoi edifici e delle sue mura, è l’impostazione urbanistica, che prevede una città perfettamente rettangolare, racchiusa entro mura regolari, organizzata in grandi viali che distinguono isolati regolari e uguali, mentre nel centro cittadino si apre la cittadella del City Palace. Un’impostazione urbanistica moderna che nacque dal sogno di un raja e dal progetto concreto e puntuale di un grande architetto.

Maraina davanti all’Hawa Mahal di Jaipur

Jodhpur invece è la città blu. Blu perché il blu era il colore dei bhramini, i sacerdoti del dio creatore Bhrama, i quali avevano le case alle pendici dell’acrocoro sul quale sorge il Mehrangar Fort, la residenza del maraja di Jodhpur. Col tempo il blu delle pareti delle case si è esteso a tutte le case di questo quartiere pittoresco per certi aspetti, respingente per altri: diciamo che di visitatori occidentali nei suoi vicoli se ne vedono pochi, perché preferiscono vedere la città blu dall’alto e di notte. Io no, non mi potevo accontentare della vista da lontano: dovevo andare, vedere con i miei occhi, camminare in quei vicoli. E l’ho fatto, è stata un’avventura, ma ne è valsa la pena.

K come Karma; K come Krishna

Il Karma è tutto per gli Indiani di tradizione Indu: è il frutto delle azioni compiute da ogni essere vivente. La parola deriva dal sanscrito e significa azione, in quanto tale portatrice di una o più conseguenze. Il succo del discorso è “se ti comporti rettamente avrai buone conseguenze”, laddove le buone conseguenze si verificano nel samsara, il ciclo delle rinascite, e dunque delle reincarnazioni, su cui si fonda l’Induismo. Nel senso comune occidentale il Karma ha preso oggi un altro significato, quasi sinonimo di buona o cattiva sorte. In realtà il suo senso è molto più ampio ed elevato e non facilmente comprensibile in tutte le sue sfaccettature per chi non è addentro all’Induismo (e prima ancora al Giainismo, che per primo parla del karma come in contrasto con la purezza dell’anima). L’induismo è una dottrina difficile e complessa, impossibile spiegarla nelle poche righe di questo post anche perché io stessa ho capito poco nei miei 10 giorni indiani. E non c’è libro che possa supplire a questa mia ignoranza.

Krishna è il più noto tra gli dei dell’induismo fuori dall’India. Sarà perché tutti noi prima o poi abbiamo visto passare una processione di adepti Arekrishna nelle loro tuniche arancioni, mentre intonano il loro monotono canto trasmettendo comunque allegria e serenità. Il dio Krishna in India è invece un avatara, ovvero una manifestazione e discesa sulla terra, di Vishnu, l’essere supremo dell’induismo. Krishna si è saputo ritagliare, comunque, un posto di grande rilievo. A livello iconografico egli solitamente è raffigurato di colore blu, indossa un abito giallo che richiama il sole, e nelle raffigurazioni più ricorrenti suona il flauto e pascola le mucche.

L come Lakshmi; L come loto

Lakshmi è la dea sposa di Vishnu e ad essa è dedicato il Birla Mandir, il tempio bianco, interamente in marmo, che a Jaipur fu costruito dall’industriale Birla e fu inaugurato niente meno che dal Mahatma Gandhi. Un tempio tutto bianco, sia dentro che fuori, interamente realizzato in marmo, piazzale compreso, mentre le finestre a vetrate illustrano le principali divinità del pantheon induista. Il Birla Temple in effetti è un compendio di divinità induiste per chi non ne conosca nomi, attributi, virtù. Mai come in questo caso mi sono resa conto dell’importanza del disegno, della raffigurazione, per spiegare storie, miti, culti complessi. Un po’ come avveniva con le vetrate nel gotico cristiano o come avveniva nei cicli pittorici nelle chiese cattoliche: l’illustrazione è la forma più immediata e facilmente comprensibile di comunicazione.

Lakshmi è dea dell’abbondanza e della fertilità. Non è un caso che sia sposa del dio supremo. Dal punto di vista iconografico, è raffigurata con 4 braccia, è seduta su un fiore di loto, il più puro e il più sacro dei fiori: perché nasce dal fango, ma non ne è sporco e va a significare la purezza cui l’essere tende senza essere sporcato dal fango dell’esistenza terrena.

Il Loto è il fiore sacro dell’induismo. Le divinità indù sono spesso raffigurate con in mano un fiore di loto, ma ciò che meglio esemplifica questa sacralità è il Bahai Temple di Delhi, il grande tempio induista che richiama nella forma un grande fiore di loto. Una costruzione piuttosto recente – risale al 1996 – che richiama davvero in grande il fiore sacro. Poi qualcuno vi dirà che ci sono dei parallelismi con l’Opera House di Sidney, ma sinceramente credo che non c’entrino nulla l’uno con l’altro.

Il Lotus Temple di Delhi

M come mucche; M come moustaches

Mucche. Mucche in ogni dove. Mucche lungo le strade, anche in città, mucche nelle isole di traffico, mucche che invece che brucare l’erba mangiano la spazzatura (eh sì, è così), mucche magre che a malapena si reggono in piedi, mucche che indolenti attraversano la strada, mucche che al mercato si mettono pazientemente in coda, come normali clienti, davanti ai banchini di frutta e verdura, o davanti ai banchini di streetfood. Agghiacciante, per noi che abbiamo un’idea delle mucche nei pascoli alpini o appenninici, che brucano erba sempre verde o fieno quand’è inverno. Qui invece le mucche mangiano la qualunque. Il fatto è che oltre a non avere un apparato digerente in grado di sintetizzare sostanze diverse dall’erba, poi vengono munte e i proprietari delle mucche bevono latte che è contaminato da chissà quali schifezze contenute nei rifiuti di cui la mucca si è nutrita senza poter sintetizzare nulla. Le mucche però sono sacre e considerate pari agli uomini nell’ideologia induista. Così si può incappare in ashram di mucche, veri ospedali su larga scala nei quali sono ricoverate le mucche malate, incidentate (per esempio che hanno perso un corno a seguito di incidente stradale), morenti. Una realtà davvero strana e particolarissima, un’esperienza da fare con un local.

I moustaches sono i baffi arrotolati e curatissimi che gli uomini del Rajasthan (non tutti, ma parecchi, anche tra i giovani) portano con orgoglio identitario. A Jodhpur su una rotonda troveremo proprio il manifesto di “Città dei Moustaches“, ma in realtà i moustaches sono portati indistitamente in tutto il Rajasthan, da giovani e anziani. Sospetto anzi che qui la moda del bearded man che si è diffusa negli ultimi anni in Europa, in India si sia trasformata in “moustache man“. Che ci piace, eh, perché i baffoni arricciati hanno il loro fascino, anche e soprattutto sui ragazzi giovani che vogliono mantenere certe tradizioni. Segno identitario ma probabilmente pure hipster.

N come Namastè

Namastè è il saluto indiano, usato sia quando ci si incontra che quando ci si lascia. Il nostro ciao, in tutto e per tutto. Il termine Namastè deriva dal sanscrito, l’antica lingua indoeuropea da cui l’indiano si origina, e significa “mi inchino a te“. Il gesto delle mani giunte e il lieve chinare del capo effettivamente riportano all’antico significato. Sospetto che l’emoticon di whatsapp e non solo, con le mani giunte non sia né un segno di preghiera, né un “batti cinque”, quanto piuttosto un namastè.

O come Occhi

Non importa che siano maschili o femminili. Gli occhi degli Indiani sono profondi, i loro sguardi indagano entro l’anima, ma allo stesso tempo sono allegri e gioviali. Non potrò mai dimenticare gli occhi di quella nonnina, alta la metà di me, contenta perché stava facendo una foto con delle turiste europee. Gli occhi sono sinceri, ridono se l’anima è felice, non riescono a fingere se l’anima è provata.

Gli occhi degli uomini e delle donne, dei bambini e delle bambine, degli anziani e delle anziane sono universi nei quali perdersi per ritrovare se stessi.

P come Paneer; P come Pushkar

Il paneer è un formaggio indiano. Un formaggio che viene definito vegetariano perché anche se prodotto a partire dal latte di mucca, tuttavia non vede l’impiego né di sale né di caglio. Il sapore, così come la consistenza, è simile al primosale, per via della sua consistenza compatta: non è assimilabile alla feta invece perché se pur ne condivide la consistenza, decisamente il sapore è all’opposto. Il paneer è insipido, più simile alla ricotta che a un primosale, ma molto versatile nella cucina indiana. Solitamente il paneer si accompagna a passati di verdura come gli spinaci – il più celebre anche fuori dall’India – o le lenticchie o il pomodoro. Può essere servito anche grigliato, con una crosticina piuttosto gustosa, ma sempre avvolto nei mille sapori delle spezie della cucina indiana.

Pushkar è la città sacra dell’India. Un luogo in cui sinceramente avrei trascorso più tempo, soprattutto nel mercato – ordinato, tranquillo, educato – e lungo il lago intorno al quale si sviluppa la cittadina. Un centro urbano che deve tutto al dio Bhrama e al tempio che vi sorge, al quale convergono tutti i fedeli induisti che vogliono ricevere la benedizione del fuoco dal bramino, il sacerdote di Bhrama. Del rito dell’Arti che si celebra nel tempio di Bhrama ho già parlato più sopra, quindi non mi dilungo. Qui invece mi preme dire come il mercato ordinato che si sviluppa nella via del centro sia davvero un luogo di affari e non (o non soltanto) una trappola per turisti. Innanzitutto nessuno ti viene addosso per venderti la sua mercanzia, ciò che invece accade altrove in Rajasthan, ma soprattutto vediamo donne indiane che provano scarpe per sé e per i figli. Forse allora si tratta di artigianato vero, non di trappole per turisti. Il dubbio viene, viste certe situazioni in altre parti della regione. Ma qui forse, ci si può fidare.

Q come Qutub Minar

Il Qutub Minar è il più grande minareto dell’India. Per la costruzione sua e della moschea cui faceva capo furono distrutti ben 21 templi induisti che sorgevano qui. Oggi il sito di Qutub Minar è uno dei siti UNESCO di Delhi ed è, secondo me, il luogo dove meglio si coglie la commistione tra due culture artistiche, religiose e ideologiche, quella islamica e quella induista, che oggi sono giunti a livelli di intolleranza davvero pesanti, ma che un tempo, sotto la dominazione moghul, hanno convissuto. Certo, in epoca moghul era l’islam la religione prevalente e imposta, ma l’imposizione non è riuscita a imporre e non ha voluto imporre la legge del Corano.

Qutub Minar è un sito archeologico monumentale molto bello e curato. Frequentato soprattutto da turisti indiani, è il luogo in cui meglio si legge la continuità tra l’arte induista e quella mussulmana subentrata, ma che conserva stilemi precedenti, mescolandoli con il proprio repertorio artistico. L’effetto è interessantissimo, soprattutto nelle colonne istoriate, nei rilievi, nel finissimo rilievo delle superfici.

Il minareto più grande dell’India: Qutub Minar

R come Rajasthan

La “terra dei Re“: questo vuol dire Rajasthan. Una regione caratterizzata da un altopiano desertico, un paesaggio che io mai e poi mai avrei associato all’India, ma che invece è preponderante. Poche grandi città, con un passato storico rilevante, molti villaggi lungo l’autostrada, in cui si coglie l’essenza della vita rurale. La storia si sviluppa in una serie di nomi di Raj, i re, quelli che poi saranno chiamati Maraja, i confini dei cui regni non sono facili da individuare, così come le epoche. Difficile collocare i re moghul cioè arabi, ma che avevano occupato, recepito e accolto alcuni aspetti della precedente cultura induista. Ciò che vediamo nei forti, il Mehrenghar Fort di Jodhpur, l’Amber Fort di Jaipur, il Red Fort di Agra, ma anche nel Qutub Minar di Delhi, è un’arte che deve molto all’arte islamica che si trova negli stessi secoli anche in Spagna o in Marocco, ma che qui accoglie stilemi della precedente arte indù. Il risultato è un eclettismo artistico e architettonico molto peculiare, che fa la cifra dello stile moghul.

Il Rajasthan è una terra di grandi contrasti: le grandi città con la loro storia piuttosto recente e le campagne, meglio le spianate desertiche con le loro condizioni di povertà, di indigenza, di difficoltà ambientale. Ma allo stesso tempo di grande dignità. Gli ospedali delle mucche sono un esempio di questo senso della vita che supera qualsiasi difficoltà oggettiva e contingente. Ti verrebbe mai in mente di ricoverare una mucca in ospedale? Qui sì. Lo trovo affascinante, anche se in questa terra di contraddizioni mi sfugge il senso di tanta abnegazione.

S come Sari; S come scimmie

Il Sari è l’abito tradizionale delle donne indiane. Coloratissimo, lunghissimo, disposto con maestria a coprire gambe e fianchi, seno e petto (la pancia è un optional) e testa, è l’abito che le donne indossano quotidianamente. Ne ho incontrate diverse che indossavano il Sari, abito che oggi potrebbe essere soppiantato da gonne, pantaloni e casacche che anche se mantengono i motivi decorativi tradizionali strizzano l’occhio al gusto contemporaneo delle donne e delle ragazze.

Le scimmie non sono così diffuse come si potrebbe pensare. E, almeno per l’esperienza che ho avuto io in Rajasthan, non sono così fastidiose, anzi. Tendono a fare gli affari loro e si incazzano se invadi la loro privacy. Questo è quanto abbiamo sperimentato a Mandore (l’antica capitale dello stato del Marwar prima della fondazione di Jodhpur) e al Galta Ji Temple (il tempio delle scimmie). Scimmie si incontrano anche nella rurale Puskhar o nella metropolitana Delhi, tuttavia non danno mai noia al turista (poi, certo, se uno le provoca poi non deve lamentarsi). Le scimmie sono in qualche modo anch’esse animali sacri. Il dio Anhuman è il dio dal corpo umano e dalla testa di scimmia, ed è oggetto di grande devozione in Rajasthan. Due esempi per tutti: il tempio di Anhuman a Jaipur, di fronte al tempio di Ganesh, dove vanno le coppie di sposi a rinnovare le proprie promesse di nozze; e il Galta Ji Temple, noto in tutto il mondo come “Tempio delle Scimmie”, all’interno del cui complesso si trova il tempietto dedicato al dio-scimmia.

Le scimmie nel tempio sulla montagna di Pushkar

T come templi

Non so voi, ma io ho un’idea – occidentale, figlia della cultura greca, poi romana, poi cristiana – dei luoghi di culto come di luoghi monumentali, in cui si respira, grazie alle gigantesche proporzioni, l’aria del Divino. L’India ci fa capire che il culto per gli dei si può espletare ovunque e che non serve avere templi innalzati da duemila anni, l’importante è avere un luogo in cui riunirsi e pregare. Ho avuto percezione e conferma di questo presso il tempio di Hasard??? a Abanhori, vicino al grande step well Chand Baori. La cosa che mi ha colpito del tempio è che, al netto della presenza di un officiante – che sta lì più per chiedere la mancia per aver donato l’illusione della spiritualità – si tratta di un rudere, di un monumento archeologico ormai privo di legami con l’età contemporanea. Il tempio, inteso come luogo di culto, si trova proprio di fronte alla scalinata del tempio di Hasard: è un prefabbricato rosa, brutto anzi bruttissimo, ma è un luogo vivo, dal quale escono canti religiosi che commuovono.

Agli angoli delle strade, o ricavati in piccoli fondi commerciali, ecco che si aprono sacelli di culto dove si riuniscono i fedeli a pregare. A Jodhpur mi ha colpito molto questa devozione.

U come Uttar Pradesh

Uttar Pradesh è lo Stato in cui sorgono Agra e Delhi. Uttar significa nord, per cui Uttar Pradesh indica un regno del nord. Non sarebbe probabilmente particolarmente ricordato fuori dall’India, se non fosse che ricomprende la capitale dell’intera repubblica indiana e il monumento più importante dell’India e di buona parte del mondo moderno.

V come vegetariano

In India ho mangiato spesso e volentieri vegetariano. Non perché non vi fosse altra scelta, ma al contrario: per sperimentare piatti e sapori che sono certa non proverò più quando rientrerò a casa. La cucina indiana è molto ricca quanto a ingredienti vegetali: dai legumi (ceci e lenticchie) alle foglie (gli spinaci piatto principe del paneer), ai pomodori, alle patate e al mais (originari dell’America, lo so, ma d’altra parte non parliamo di ingredienti tipici anche della nostra cucina tradizionale. I piatti sono tutti estremamente caratterizzati da cumino, chiodi di garofano, cardamono, cannella, curcuma, zenzero, noce moscata, e chi più ne ha più ne metta. La cucina indiana mi piace e mi incuriosisce. Ma dopo 10 speziatissimi giorni non mi dispiace tornare all’insalata cruda condita con un filo d’olio.

W come Waste (spazzatura)

Che disagio. Che disagio vedere agli angoli delle strade, anche accanto ai monumenti aperti al pubblico, cumuli di spazzatura che non verranno mai raccolti, ma che più probabilmente verranno bruciati. Ho ancora davanti agli occhi una scena, mentre passavo in macchina: una tendopoli di profughi dal Bangladesh, nella remota regione desertica lungo la via tra Delhi e Jpdhpur, è sottovento mentre accanto si sta scientemente dando fuoco alla spazzatura. Dal mio bel bus isolato e refrigerato posso solo immaginare – e non ci riesco – il puzzo acre della spazzatura bruciata, i veli delle donne tirati sin sul naso non per vergogna, ma per sopravvivenza.

Quello della spazzatura (monnezza, sudicio, pattume, rumenta, chiamatelo come vi pare in qualunque regione d’Italia) è un problema serio che però non sembra toccare da vicino i serafici Indiani. Non esiste, se non nel quartiere “Londra” di Agra, un sistema organizzato di raccolta dei rifiuti; è naturale che distese di plastica e di rifiuti non degradabili si dispongano lungo le strade o accumulati presso i crocicchi delle strade nei centri cittadini. Non è solo una questione di decoro: non è il mio nasino all’insù occidentale che si storce, è il senso di mancanza totale di prospettiva, di senso dell’ecologia, dell’igiene, della salute pubblica. E mi fa ridere allora che per le strade di Delhi ci siano i manifesti del G20 sull’ambiente. Delhi è l’esempio di cosa una metropoli non deve fare, se vuole tendere all’igiene e alla salute pubblica.

Ci vorrebbe una rivoluzione. Una rivoluzione di mentalità che, si badi bene, anche da noi stenta a decollare: la spazzatura abbandonata dietro l’angolo è una costante anche a Roma; a Firenze, ore dopo la conclusione della DjTen del 21 maggio 2023 ancora non era passato uno spazzino a togliere tutte le plastiche e le schifezze buttate per terra da gente che – evidentemente – ha ancora meno a cuore la questione ambientale. A maggior ragione non condanno l’India, perché sono ben conscia che vedo la pagliuzza nell’occhio del vicino quando dovrei preoccuparmi di ciò che succede sotto casa mia. Ma ciò che dispiace è che quella spazzatura entra nella catena alimentare: le mucche invece che l’erba ormai mangiano qualunque cosa sia masticabile, e il latte che producono e che viene munto inevitabilmente è un latte “sporco”. Per questo invoco l’igiene e la salute pubblica. Perché l’India ha bisogno che l’atteggiamento verso l’ambiente cambi, che cambi quell’atteggiamento fatalista per il quale “tanto quando muoio mi reincarno in qualcos’altro“, perché non è così semplice.

Z come zafferano

L’India è una terra vocata alle spezie: coriandolo, cumino, curcuma, chiodi di garofano, cardamomo verde e nero, pepe nero, cannella. E anche zafferano. Che forse non è una spezia ma che col suo colore rende ulteriormente vivace ogni piatto e, usato come pigmento, tradizionalmente, è il colore dell’oro, del sole, della luce e della vita.

C’è una curiosità legata allo zafferano e alla sua coltivazione in India. Fuori da Jaipur, sul fiume che scorre alle pendici dell’acrocoro su cui fu eretto l’Amber Fort, la grande fortezza moghul di Jaipur, in stretta connessione con essa, il moghul fece realizzare un isolotto artificiale che avrebbe dovuto servire come spazio per la coltivazione dello zafferano. Nonostante i numerosi tentativi di fare attecchire la coltivazione, lo zafferano qui non trovava terreno e condizioni climatiche e ambientali favorevoli. Così il raja non poté fare altro che prendere atto e trasformare quell’orto infruttuoso in un bel giardino ordinato, un luogo di delizie all’ombra dell’Amber Fort.

In realtà lo zafferano è coltivato in India, ma non nel Rajasthan: è nel Kashmir che trova il suo ambiente naturale più consono. E il momento della fioritura dello zafferano è uno spettacolo pari, forse, soltanto, alla fioritura della lavanda in Provenza. Provare e vedere per credere.

Spero con questo alfabeto dell’India, con questo excursus dalla A alla Z, di averti regalato qualche suggestione su questa terra che regala emozioni intense, nel bene e nel male, a chi la attraversa.

Questo è il primo di una lunga serie di post (lo prometto) dedicati al viaggio in India che ho compiuto insieme alle Travel Blogger Italiane Paola di Pasta Pizza Scones, Virginia di Travel Gudu e Cristina di Vi do il tiro. Un viaggio che per 10 giorni nel mese di maggio 2023 ci ha portato alla scoperta del Rajasthan. Avremo scoperto la sua anima più vera? Non lo so, ma sicuramente abbiamo fatto esperienze, visto cose e vissuto storie che ci resteranno nel cuore e che vogliamo raccontare anche a voi.

Viaggio realizzato in collaborazione con Mente in viaggio e Racconti di viaggio che ringraziamo per il supporto logistico prima e durante il viaggio.

9 risposte a "India dalla A alla Z"

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  1. Vedo che neanche a te l’India ti ha lasciata indifferente. Io ci sono stata molte volte e ti assicuro che è un paese che crea ‘dipendenza’, perché hai sempre voglia di tornarci. Con infinite bellezze e anche bruttezze, è molto affascinante, accogliente, colorato, stupefacente, dove continuamente puoi assistere a delle situazioni assurde. Lo slogan pubblicitario del governo indiano di qualche anno fa, per fomentare il turismo era: ‘Incredible India’. Azzeccatissimo. Peccato che l’attuale governo fomenti sempri di più l’intolleranza. Speriamo bene

  2. Questo “alfabeto dell’India” mi ha fatto ripercorrere un po’ il viaggio, mettendolo “in ordine” per così dire: luoghi visti, cibi assaggiati, incontri, odori. MI stupisce però che manchi “T come Tuk-Tuk” 😂😂

    1. Ciao Elisa, pubblicherò il prossimo post sull’India, salvo imprevisti, il 18 giugno. In ogni caso, se lo desideri puoi iscriverti al blog cliccando su “siti che segui maraina in viaggio”. Altrimenti, se sei arrivata su questo blog attraverso il gruppo Facebook “Viaggiare in India”, pubblicherò gli aggiornamenti sempre anche lì e sulla mia pagina facebook.
      Grazie a te!

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