Domenica 13 luglio chiude i battenti la mostra alle Scuderie del Quirinale “Barocco globale” e domenica 20 luglio chiude invece, dopo una proroga, la mostra “Caravaggio 2025” a Palazzo Barberini. Sono quindi gli ultimi giorni per visitare queste due grandi mostre-evento, ben diverse per impostazione, ma ugualmente molto interessanti.
“Barocco globale” alle Scuderie del Quirinale
In anni recenti ho sviluppato un certo interesse per il Barocco, soprattutto per il Barocco ligure. Il merito è di una mostra a suo tempo allestita proprio alle Scuderie del Quirinale, SuperBarocco, che mi diede gli strumenti per comprendere uno stile artistico e architettonico che troppo frettolosamente definiamo come esagerato, virtuosistico, sovrabbondante. In realtà non si può scindere il Barocco come periodo artistico dal secolo di cui è figlio, il Seicento, secolo in cui gli stati dell’Europa si aprono verso i nuovi mondi scoperti e da evangelizzare, o da sfruttare economicamente. Se all’epoca di SuperBarocco la protagonista era stata Genova e Peter Paul Rubens il suo maggior interprete, in “Barocco Globale” è Roma la protagonista e non vi è un solo interprete, ma vi è una pluralità di voci, tante quanto erano le voci che si potevano sentire in quella che era una città realmente cosmopolita. Michel de Montaigne nel 1581 scrisse “Roma è la città più cosmopolita del mondo, dove il fatto di esser stranieri e le differenze di nazionalità contano meno; poiché per sua natura contiene forestieri dappertutto, e chiunque vi si trova come a casa propria“. I forestieri sono monaci, missionari e prelati, sono ambasciatori e consoli stranieri, sono servitori, sono artisti, sono zingari, sono turchi e persiani, sono l’esito di ciò che il secolo precedente ha comportato: dopo la scoperta – e l’occupazione – delle Americhe, dopo la fondazione della Compagnia di Gesù e la diffusione dei missionari sia in America del Sud che in India e Cina, il mondo è decisamente molto più connesso rispetto al passato. La mostra racconta queste connessioni, affidandosi all’arte, ma anche ad altre forme di documenti, come i libri, come il planisfero di Matteo Ricci – il più importante tra i missionari gesuiti in Cina – come i paramenti sacri realizzati in piume di uccelli da manifatture sudamericane.

Volendo seguire il filo della mostra, diremo che essa si apre e si chiude in maniera eclatante, in entrambi i casi con un viaggio. Il primo è il viaggio dell’ambasciatore del Congo Antonio Manuel Ne Vunda, partito per cercare presso la Santa Sede aiuto contro le vessazioni dei Portoghesi. Viaggio sfortunato, perché dapprima Ne Vunda fu rapito e rapinato da pirati olandesi, poi, giunto in Portogallo, trattenuto per tre anni contro la sua volontà proprio perché i Portoghesi non volevano che il Papa si immischiasse nella loro politica estera; infine, giunto a Roma dopo i tre anni di prigionia, fortemente malato e debilitato, riuscì a malapena a portare la sua ambasciata al papa Paolo V, dopodiché morì. E il papa, colpito da questa prova di abnegazione e di sacrificio, gli tributò l’onore speciale – e mai concesso prima – di ricevere esequie solenni in Santa Maria Maggiore e di ricevere un monumento funerario – lui, di etnia e di fattezze africane. Il suo ritratto, realizzato grazie ad una maschera di cera, fu poi però in qualche modo idealizzato sul modello dei ritratti all’antica: io per esempio ci vedo molto del Bruto Capitolino. In ogni caso la sua figura è eccezionale perché quel monumento funerario fu un evento senza precedenti in una città che era cosmopolita ma forse non se n’era mai resa conto prima.

Il viaggio che conclude la mostra è invece il viaggio di un elefante, di nome Don Diego, che partito dall’India e trasportato via mare in Portogallo, da qui visitò – non di certo per sua volontà – molte corti d’Europa fino ad arrivare a Roma nel 1630, dove il pittore francese Nicolas Poussin potè vederlo, studiarlo e ritrarlo nelle sue esatte fattezze – come solitamente si fa con gli umani – in un dipinto a tema “Annibale valica le Alpi“: una scusa, perché la scena è completamente occupata dal povero elefante, reso nei minimi dettagli della pelle rugosa e pesante tipica dei pachidermi.
La mostra segue due filoni principali, all’interno dei quali si delineano le tematiche delle singole sale. Da una parte incontriamo e palpiamo la fascinazione degli artisti per ciò che di esotico arrivava a Roma, quanto ad oggetti ma anche e soprattutto persone; dall’altra l’effetto del contatto e dell’interazione tra europei (in particolare missionari o diplomatici) e Cina, Persia, Giappone, India, Americhe.
Per quanto riguarda il primo tema, gli artisti – e i committenti prima ancora – sono interessati a ciò che è esotico e pure straniero. Fioccano opere sia di scultura che di pittura che ritraggono Africani nei loro caratteri somatici principali e – in scultura – con materiali che ne evocano il colore della pelle. Tra le etnie straniere presenti a Roma nel Seicento curiosamente spicca quella dei Rom, all’epoca stranamente ritenuta di provenienza egizia. La serie di opere sulla falsariga de La Buona Ventura di Simon Vouet fa capire cosa si pensasse già all’epoca dei Rom: il dipinto di Vouet è un capolavoro: abbiamo, figura centrale, il pirla con sguardo beota che si fa turlupinare al canto di “Prendi questa mano zingara” dalla bella e giovane Rom ammaliatrice che gli legge la mano, mentre alle spalle una vecchia certo non altrettanto attraente gli sottrae con maestria i denari mentre gli rivolge, non contenta, pure un gesto osceno (il pollice inserito tra indice e medio), il tutto mentre guarda diretta verso lo spettatore, certa della sua complicità. Inevitabilmente viene in mente la frase “Attention Pick Pocket“, che in metropolitana a Roma ogni tanto si sente, proprio per “svegliare” i turisti (ma anche i romani) potenziali vittime di furto.
Con Gian Lorenzo Bernini assistiamo alla fase di elaborazione della fontana dei Quattro fiumi, vero trionfo della scultura barocca, ma anche testimonianza della conoscenza ormai dei quattro continenti (l’Australia ancora non era stata scoperta). Le grandi statue personificazioni dei fiumi riassumono tutti i pregiudizi e gli stereotipi legati alle terre che essi rappresentano: così sul bozzetto, ad esempio, il Rio de la Plata (Sud America) è raffigurato con un gonnellino e una borsa di monete d’oro. Al visitatore si chiede ora uno sforzo: dopo la mostra, andare in Piazza Navona e verificare le differenze tra il bozzetto e l’opera in marmo definitiva. Io, per mia parte, so già dire che il leone, attributo dell’Africa, nella fontana appare diverso dal bozzetto.

Per mia deformazione professionale, poi, mi sono emozionata davanti al grande planisfero di Matteo Ricci, che pone la Cina al centro della raffigurazione. Ricci, lo ricordiamo, è un missionario gesuita che per primo capisce che il modo migliore per convertire al Cristianesimo le popolazioni locali è innanzitutto adottare la lingua, la scrittura, gli usi e i costumi dei Cinesi, al punto di appassionarsi in modo tale da redigere, insieme a un astronomo cinese, un planisfero per l’epoca completissimo, con la presenza delle Americhe e con una serie di cose scritte, naturalmente in cinese, dai nomi di città e mari al racconto di un viaggio per mare, alla descrizione della volta celeste. Un’opera meritoria e di grandi dimensioni della quale al mondo esistono più soltanto 6 esemplari.
Mi ha colpito poi il ritratto dell’ambasciatore persiano Ali-Qoli Beg, realizzato nel 1609 dalla più brava ritrattista di tutti i tempi, Lavinia Fontana, a sua volta tra le protagoniste della mostra Roma Pittrice esposta l’inverno scorso a Palazzo Braschi. Questo ritratto è davvero notevole: l’ambasciatore è ritratto di tutto punto, con i suoi abiti distintivi tra i quali quel soprabito di broccato rosso di cui la pittrice riesce a rendere la matericità del tessuto; tuttavia non mi colpisce tanto la cura nella resa dei tessuti – cosa che da Rubens in poi i più bravi pittori barocchi sanno rendere – ma il volto dell’ambasciatore, che guarda dritto verso Lavinia Fontana, e verso di noi, con un’espressione curiosa ma bonaria, con il suo sguardo sornione dietro il naso leggermente adunco. Un’espressione talmente precisa che sembra una fotografia e forse è in questo, più che nella resa pressoché ingannevole dei tessuti, che si delinea la maestria della grande artista nel saper cogliere lo spirito del personaggio.
Insomma sono tantissimi gli spunti di riflessione in mostra. A partire dal Seicento in effetti, dopo la presa di coscienza e di conoscenza del secolo precedente di aver scoperto un nuovo continente, si può cominciare a parlare di un mondo globalizzato. Globalizzato, interconnesso al punto che una pittrice indiana realizza un disegno della statua in Santa Cecilia in Trastevere, opera di Stefano Maderno raffigurante il martirio di Santa Cecilia; o al punto che un pittore cinese realizza copia dell’icona della Salus Populi Romani dando alla Madonna e al bambino un aspetto cinese che crea un effetto un po’ straniante ai nostri occhi. E d’altra parte, se andassimo in Perù vedremmo la Sacra Famiglia rappresentata con caratteristiche fisiche prettamente Quechua, in quello stile meraviglioso che è quello che si instaura in Perù proprio nel Seicento con la Escuela Cusqueña (di cui ho accennato qui, a proposito dei presepi peruviani).
E ancora. Globalizzato, interconnesso al punto che un personaggio del calibro di San Carlo Borromeo può indossare mitra e paramenti sacri realizzati in vere piume d’uccello confezionati da artigiani sudamericani. Globalizzato e interconnesso al punto che l’ambasciatore inglese di Persia, sposato con una donna circassa, si vestiva, e lei con lui, all’orientale, facendosi ritrarre da un giovane ma già talentuoso Anthony Van Dick (fiammingo, ma attivo in Italia). Globalizzato e interconnesso al punto che un elefante può partire dall’India e arrivare a Roma. E su questa immagine – quella di cui parlavo in apertura, dipinta da Poussin, voglio chiudere facendo riferimento a José Saramago e al suo romanzo breve “Viaggio dell’elefante“: una storia quasi onirica, come spesso sono i suoi racconti, ma che, scommetto, ha tratto ispirazione dalla storia di Don Diego, l’elefante indiano che divenne così famoso nell’Europa barocca.

Info pratiche: non occorre prenotazione; la mostra chiude il 13 luglio 2025, dunque affrettatevi. La mostra si completa con un’audioguida fruibile da smartphone attraverso lettura di QRCode (alla faccia di chi vorrebbe vietare gli smartphone nei musei: sì, Aldo Cazzullo, sto parlando con te!); correlata alla mostra è una serie podcast prodotta da ChoraMedia che si intitola “Altre Globalizzazioni” e che prende spunto dai temi della mostra per trattare in realtà tematiche contemporanee com’è appunto il tema della globalizzazione. E poi autore e podcaster insieme a Francesca Berardi è Simone Pieranni, il mio podcaster preferito. Ok, l’ho detto, spero che mi legga 😅
Caravaggio 2025 a Palazzo Barberini
Palazzo Barberini è una delle pinacoteche a mio parere più belle di Roma, con opere che stanno su tutti i manuali di storia dell’arte, dalla Fornarina di Raffaello alle vedute di Van Vittel fino alla Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Proprio Caravaggio è protagonista della mostra-evento (che chiuderà il 20 luglio: affrettatevi a visitarla!) del 2025 romano, con una carrellata di opere di Michelangelo Merisi provenienti da collezioni sparse in tutto il mondo: occasione unica per veder quindi riunite insieme 25 opere del maestro della luce, e – quando non ne foste sazi – da abbinare ad un itinerario alla scoperta delle altre opere di Caravaggio sparse nelle Gallerie e nelle chiese di Roma.
La mostra segue un criterio cronologico: dagli anni giovanili alla sua affermazione come pittore richiesto per committenze prestigiose, fino all’epilogo tragico: da quando cioè è costretto a lasciare Roma per aver commesso un omicidio, pena la carcerazione a quando, ottenuto il perdono papale dopo essere stato per qualche tempo a Malta, ritornando sulle coste laziali si ammala e muore a Porto Ercole, in circostanze ancora poco chiare, a soli 39 anni.
In mostra seguiamo perciò tutto lo sviluppo del suo stile: uno stile personalissimo in grado di influenzare l’arte di molti pittori a lui successivi, e che perciò vengono definiti oggi Caravaggeschi, i cui caratteri distintivi sono l’uso impressionante della luce e del buio, la quasi palpabile matericità dei soggetti, i ritratti dal vero impietosi talvolta – e che spesso all’epoca generarono scandalo (come ad esempio la scelta di usare come modelle cortigiane o addirittura prostitute per impersonare figure di sante o addirittura la Madonna).
La mostra è pensata per il pubblico quanto più ampio possibile. Personalmente ho apprezzato l’audioguida che accompagna il visitatore passo passo nell’osservazione dell’opera raccontandone anche il contesto; analogamente le didascalie delle opere sono molto articolate: sta al visitatore scegliere se leggerle o se abbandonarsi completamente alla contemplazione (tra le due opzioni io preferisco prendermi il tempo per leggere tutto, non amo contemplare, quanto piuttosto osservare la tecnica, i dettagli, i virtuosismi, che in Caravaggio sono tantissimi).
Non vi racconterò qui tutte le opere, ma solo alcune, quelle che mi hanno colpito per la loro storia o per qualche dettaglio. In particolare questa visita è stata per me – che più volte ho incontrato delle opere di Caravaggio, alcune delle quali in mostra, nelle mie visite ai musei – l’occasione per soffermarmi su dettagli altre volte magari poco presi in considerazione, o per riconoscere dei tratti distintivi della poetica figurativa dell’artista.
Mi ha colpito, tra le opere, una delle prime in mostra, quindi appartenente agli anni giovanili, in cui però c’è già tantissimo del Caravaggio maturo: è il cd Mondafrutto, un giovane intento a sbucciare un frutto, davanti a sé pesche mature ritratte in maniera esemplare. Ma ciò che più mi colpisce del giovinetto sono le mani, così realistiche nella resa delle nocche, nella posa naturalissima delle dita, da sembrare quasi di vederle muoversi. Stupendo.
Nel famosissimo Giuditta e Oloferne (già nelle collezioni di Palazzo Barberini) mi colpisce sempre lo sguardo tremendo della vecchia che assiste Giuditta mentre sgozza Oloferne: un mix di orrore per l’atto, ma anche di ferocia, mentre lo sguardo della giovane viaggia tra il ribrezzo e il raccapriccio, tra l’orrore per quanto ella stessa sta facendo e la preoccupazione, però di eseguire l’assassinio in maniera impeccabile.
Di un apparentemente insignificante (si fa per dire) San Giovanni Battista – uno dei tre in mostra e uno dei tanti che Caravaggio ha dipinto nel corso della sua pur breve carriera – mi colpisce invece la storia: si tratta infatti di un’opera che gli viene commissionata da un banchiere genovese, Ottavio Costa, il quale possedeva un castello in quello che è oggi un minuscolo borgo dell’entroterra di Albenga, in Liguria: Conscente. All’inizio del Seicento Ottavio Costa stava facendo restaurare la chiesa del piccolo borgo e quindi commissionò a Michelangelo Merisi questo San Giovanni Battista. Il santo appare molto meditabondo, meno fanciullesco che in altre versioni dello stesso soggetto, con un fisico ben più prestante e massiccio, nel quale è stata vista l’influenza delle figure tanto muscolose di Michelangelo Buonarroti.
Ad ogni modo, la sperduta chiesa ligure dell’entroterra di Albenga non vide mai l’originale di Caravaggio, perché il buon Ottavio Costa decise alla fine di tenerselo nella propria dimora a Roma. Ma siccome evidentemente l’aveva promesso a qualcuno, alla chiesetta ligure donò una copia del dipinto, che oggi è esposta al Museo Diocesano di Albenga. Io, ligure, ho trovato questa storia interessantissima: possiamo fregiarci di aver anche solo per un attimo sfiorato l’idea di possedere pure noi un dipinto del Caravaggio. Ma pure la copia dell’epoca non è che ci dispiaccia, eh!
Parlavo di fisicità. E allora è difficile restare insensibili di fronte alla Flagellazione di Cristo: la corporeità di Cristo, ritratto legato a una colonna da cui discende un fascio di luce a illuminargli l’incarnato, piegato dalle vessazioni che i tre personaggi intorno gli stanno propinando, è di una perfezione tale da renderlo quasi sensuale (mi si perdoni!). E l’incarnato illuminato, con il volto reclinato, dimesso e sofferente, contrasta con le carnagioni più scure dei suoi aguzzini.
Un’opera stranota, ma che non smette mai di colpirmi per la profondità e atrocità dello sguardo è David con la testa di Golia. Il giovane David guarda con commiserazione mista a pietà la testa appena spiccata dal corpo del gigante Golia, che ancora sembra viva, la bocca aperta in un urlo lacerato e forse ormai silenzioso, gli occhi ancora pieni di orrore: sembra in apnea. Il fatto, poi, che Golia sia nient’altro che il ritratto dell’artista – che nel frattempo si era già macchiato del crimine che ne segnerà il destino – rende tutto ancora più umano, ancora più coinvolgente. Caravaggio si autoritrae in Golia volendo autocondannarsi per l’orrore che ha commesso (un assassinio), cercando attraverso l’arte di espiare la sua colpa. In realtà sarà costretto a ripararsi a Malta, dove realizzerà opere celeberrime che sono tuttora esposte nella cattedrale dell’isola, a La Valletta, al servizio dei Cavalieri dell’Ordine di Malta.
Altra opera famosissima di Caravaggio è la Cena in Emmaus, episodio celeberrimo del Vangelo, che la Liturgia cattolica celebra la settimana dopo Pasqua: nel Vangelo Gesù, risorto, appare a due discepoli che vanno commentando, ormai disillusi, la triste fine che ha fatto colui in cui avevano riposto la loro fede. Gesù non si rivela a loro subito, ma si fa portare a cena e solo lì, nell’atto dello spezzare il pane, i due lo riconoscono. Il dipinto di Caravaggio è un compendio di tutti i caratteri distintivi del suo stile: la luce laterale che colpisce in volto Gesù illuminandolo, e di riflesso illuminando la scena; l’attenzione alle mani di tutti i soggetti raffigurati, che sia Gesù nell’atto di benedire il pane, che sia uno dei due discepoli che si aggrappa al tavolo nel momento dello stupore per il riconoscimento; i volti dei due osti, uomo e donna, e in particolare della donna, una vecchia dal volto rugoso e spigoloso, tutt’altro che gradevole alla vista, mentre l’oste rubicondo osserva la scena con una certa curiosità (e sembra dire “vabbè, spezza tutto il pane che vuoi, basta che paghi”). Infine, l’archeologa che è in me non può non apprezzare la brocca trilobata per il vino, decorata in bianco e blu, tipica produzione laziale di quei tempi.
Per concludere: Caravaggio 2025 è una summa sull’artista che più di ogni altro – dopo Leonardo e Michelangelo Buonarroti – è amato e conosciuto a livello internazionale. La sua riscoperta, peraltro, è cosa recente, perché risale alla metà del Novecento, quando lo storico dell’arte Roberto Longhi fece la prima mostra su Caravaggio facendo riscoprire questo artista che fino a quel momento non è che fosse particolarmente né conosciuto né apprezzato dalla critica. Certo, si tratta di una mostra mainstream, e lo dimostra il fatto che si siano create liste d’attesa lunghissime per riuscire a visitarla. Io sono stata fortunata: ho aspettato l’ultimo minuto, sapendo che era stata prolungata l’apertura, e ho sfruttato uno slot infrasettimanale. Nei mesi scorsi molti hanno lamentato il disagio di non riuscire a prenotare un biglietto e chi l’ha visitata ha lamentato l’estremo affollamento. Estremo affollamento che non consente la corretta, giusta e personale contemplazione/osservazione delle opere.
Al netto di questo, sorge una riflessione, forse anche due: Caravaggio è bello perché è bello o è bello perché piace? In altre parole, perché Caravaggio è così pop, così amato e apprezzato al punto da rendere difficilissimo nei mesi scorsi riuscire ad accaparrarsi un biglietto? Come è successo che dopo Longhi improvvisamente tutti si sono innamorati di Caravaggio mentre prima non se lo filava nessuno? E, altra questione: questa mostra si intitola Caravaggio 2025, volendo mettere un punto su ciò che noi oggi conosciamo su questo straordinario artista. Per il grande pubblico, cui si rivolge, questa mostra è perfetta, meno però per chi si aspettava di scoprire qualcosa di più sulla biografia del personaggio o su questioni controverse di attribuzioni. Ma non è questa la sede per discuterne. Resta il fatto che Caravaggio 2025 può prendersi ad esempio come ben riuscito caso di operazione culturale e operazione commerciale allo stesso tempo. Anzi, a dirla tutta, sono rimasta quasi delusa dal merchandising.
E tu che ne pensi? Hai visitato una delle due mostre o entrambe? Ti va di dirmi le tue impressioni nei commenti? Ti aspetto!




















la mostra di Caravaggio per me è stata una vera delusione. Le luci, posizionate malissimo, non permettevano di godere appieno delle meravigliose opere d’arte esposte. Per di più il fatto che non ci fossero auricolari disponibili per gli avventori ha fatto in modo che chi ne era sprovvisto ascoltare le informazioni a tutto volume dal proprio cellulare. Cento cellulari in azione a tutto volume uguale caos. Per me bocciata. Peccato, perchè avevo aspettative altissime.
Non sono riuscita ad andare a nessuna delle due purtroppo, perché ho scoperto troppo tardi della proroga a Caravaggio 2025, però ho avuto colleghi che si sono riusciti ad accaparrare i biglietti per quest’ultima e mi hanno dato pareri contrastanti.
Sai che mi sono spesso posta lo stesso interrogativo che poni tu alla fine, cos’è che ha davvero reso questo artista dal vissuto così turbolento un artista oggi così popolare? Altre mostre simili su altri artisti ben più “blasonati” non sono andate sold-out così in fretta (e lo dice una persona a cui la sua arte piace molto proprio per le emozioni forti che provocano i suoi quadri “scandalosi”, non belli nel senso più puramente estetico della parola ma “sporchi e vivi”, ma non mi aspettavo una simile risposta dal grandissimo pubblico).
Ti ringrazio invece per i dettagli su “Barocco globale”, su cui invece non sono riuscita a reperire uguali pareri di prima mano da conoscenti e mi sarebbe molto piaciuto averne, quindi ho potuto addentrarmi un po’ in cosa mi sono persa grazie al tuo articolo 🙂